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Omologati, Resistenti, Alternativi: a che punto siamo?

    Chiacchierata di Bruno con Valter, agosto 2016

    Mi ha stuzzicato il discorso dell’ultima Agorà nazionale (settembre 2015), quel “O.R.A.” che vuol dire O omologati, R resistenti, A alternativi, e proprio l’altro giorno Giorgio Chiaffarino mi chiedeva a che punto siamo. E io gli ho detto “Ma che ne so, a che punto siamo!?”.

    Siamo partiti in un contesto molto favorevole perché il clima era il dopo ’68 -gli anni ’70 a Milano erano anni molto effervescenti- e poi perché non siamo partiti da un’idea. Il primo grande aiuto da parte della Provvidenza, secondo me, è stato proprio che non siamo partiti con un’idea, tantomeno con un’ideologia. Perché il rischio c’era in quegli anni, o di essere troppo spirituali o troppo dentro il marasma degli anni ‘70, ma siamo partiti da un bisogno, non dichiarato, ma presente.

    Avevo una famiglia grossa da mantenere e non ce la facevo più; non ero riuscito a inserirmi nel lavoro dopo il rientro dal Ruanda e altre cose così. Venuti a Milano, chiamati da Padre Barbieri, abbiamo avuto un grosso aiuto, anche se al momento non siamo stati capaci di valutarlo bene, però siamo venuti a Milano e abbiamo trovato un ambiente che non era molto dissimile dalla nostra vita in Africa: un po’ alla giornata, tanta gente che andava e veniva, e così è nata la mia famiglia, allargata.

    Poi abbiamo incontrato i servizi sociali: io in quel periodo ero molto suscettibile al fatto che qualcuno pensasse che io “usavo” i giovanotti che venivano a vivere con me perché volevano partire o perché erano ritornati dalla missione e non sapevano cosa fare, che li usassi per mantenere la mia famiglia. Allora anche per questo sono stato molto disponibile quando mi hanno detto se volevo mettere dentro alla mia famiglia qualche altro bambino non mio. Questo ragionamento l’ho fatto con l’Enrica e la mia famiglia si è allargata: tutto naturalmente insomma, senza pensarci molto, senza pensare al futuro, ma erano gli anni che si viveva un po’ giorno per giorno.

    E poi incontro i Gesuiti, anche loro in ricerca, venuti fuori dal convento dopo il Concilio… con tutto quello che ne consegue, non molto ben accetti dalla loro stessa Istituzione, tant’è vero che quando andavo in giro per l’Italia e incontravo qualche altro gesuita chiedevano a me cosa facevano dei gesuiti di Milano lì a perder tempo, così giovani così bravi… Erano anche loro alla ricerca, una ricerca molto libera, non indirizzata, e ho sentito una sintonia con loro. Ci è andata bene subito, loro non hanno cercato di venire in casa mia, io non l’avrei nemmeno chiesto, ma sentivo il bisogno di avere qualcuno di diverso da me. Noi ragionavamo su qualche prete… e ne sono arrivati cinque o sei.

    E poi la casa e si sono messe insieme tante cose; da Padre Barbieri dovevamo venire via e di case non ne trovavamo: tutte quelle che trovavamo all’ultimo momento non andavano bene, per un motivo o per un altro. E poi invece salta fuori Villapizzone.

    Villapizzone è andata bene perché è andata bene… È andata bene a noi, bene alla proprietà che non sapeva cosa farsene, è andata bene al quartiere, perché la casa era diventata un po’ un immondezzaio. È andata bene in particolare che quella casa lì avesse un vincolo, che noi non sapevamo nemmeno, l’abbiamo scoperto strada facendo che c’era un vincolo come verde pubblico per utilizzo sociale. Quando Radice Fossati me l’ha detto, ho detto “Va bene, meglio ancora”, ma senza sapere bene cosa comportava: verde pubblico significa che poi la gente è entrata, il quartiere la sentiva sua. Dicevano ‘utilizzo sociale’: è talmente grande, perché non possiamo utilizzarne un po’ anche noi altri del quartiere? Noi eravamo in pochi e allora perché no? E così è nato un modo di stare insieme: come custodi di un bene non nostro, aperto, grande, dove ognuno aveva un suo spazio, dove potevamo anche litigare in casa che non ci sentivano nemmeno. Quindi è anche più facile stare insieme.

    Anche questo fatto ha contribuito alla nascita di una comunità molto… molto… non banale. Come dire? Libera e nello stesso impegnata in un certo qual modo, perché stare insieme, così diversi, non è facile, però ci sentivamo liberi; ecco, la libertà l’abbiamo respirata subito, almeno io nella mia famiglia. Liberi noi genitori, perché avevamo una famiglia grande dove c’erano i nostri figli, i figli aggiunti, gli obiettori, gli adulti, ospiti e gente di passaggio. Era un bel casino, ma era un bel casino! Dove gli uni facevano da fratelli maggiori agli altri. I nostri figli aggiunti ci hanno fatto capire che dovevamo stare a distanza, però esserci; ci hanno impedito di diventare operatori sociali, perché il rischio era forte, avendo una famiglia numerosa, e invece loro volevano un uomo e una donna innamorati, che facevano i genitori stando al loro posto.
    Così per noi è stata una liberazione dal peso del dover fare il genitore a ogni costo: quasi io mi sentivo libero con gli aggiunti, perché dicevo ‘Dopo tutto non vi ho fatti io’, ma allora anche con i miei figli che dicevano ‘Perché tu mi hai fatto pretendi di avere…’. Noi ci siamo liberati dal peso della paternità e della maternità, in tutto quello che la nostra società mette sopra a sta povera famiglia.
    Allora si parlava molto del dialogo del genitore: bisognava parlare con i figli… io non riuscivo a parlare con nessuno, così tanti che eravamo! Ma quando uno aveva bisogno mi incastrava in un angolo e io dovevo ascoltarlo per forza, anche se non avevo tempo e non avevo voglia. È stata proprio un’educazione, certamente non voluta ma accettata. E anche interpretata.

    Abbiamo cercato di capire quelle cose lì, anche con l’aiuto dei Gesuiti, che erano dei fratelli maggiori che venivano, dicevano la loro e poi se ne andavano. Erano liberi di dire tutto quello che volevano, poi se ne andavano, ma anche noi eravamo liberi di ascoltare tutto quello che volevano dirci e poi interpretare… fare, disfare, provare… Perché poi i Gesuiti non erano lì su tutto, eravamo noi che dovevamo interpretare, realizzare una famiglia sui generis…

    Valter: Mi viene da collegare questa cosa con tante storie di quelli che sono venuti dopo e che adesso si raccontano e dicono che per moltissimo tempo, anni di vita comunitaria, hanno sentito il peso dei cliché, del dover essere in qualche modo: non solo il progetto ma essere adeguati loro a un modello; un cliché che pesa; persone che fanno cose anche diverse da quella che sarebbe la propria verità, perché vorrebbero essere altro.

    Ma ecco! Quel ‘vorrebbe’ è importante.

    Valter: Mi sembra che dal tuo racconto emerga una buona dose di libertà, ma anche di gioco di ruolo che hanno giocato questi ospiti: vi hanno costruiti, vi hanno costretti a essere in un qualche modo, attraverso una relazione quotidiana gomito a gomito, non una qualche teoria che io mi porto dentro, un qualche padre che ho dentro da soddisfare. L’ospite è come uno dei protagonisti della storia iniziale.

    Certo! Io devo molto a quelli che ho conosciuto, ma anche dopo, ai libri che ho letto, agli incontri che ho seguito e a quelli che ho fatto. Di mestiere sono costruttore, a me piaceva mettere un mattone sopra l’altro, ma mai un mattone sopra l’altro allo stesso modo, capito? Io avevo questa voglia di cambiare sempre: è per questo che ho fatto fatica ad accettare l’idea che altri pensassero a un cliché, che io non ho mai voluto, ma era pensato da loro.
    Quante volte ho dovuto smitizzare Villapizzone di fronte alla gente, negli incontri che facevo in giro: lo so io cos’è Villapizzone, non voi che non ci siete stati! Voi adesso vedete un’icona, ma io so cosa ha voluto dire stare insieme in quel modo lì! Nel senso di fatica. Nella mia famiglia, ma anche nella comunità: così libera, così aperta.

    C’è stato un periodo in cui eravamo 33 adulti a Villapizzone, su 50 eravamo 33 adulti… ti immagini quante teste!? E quella sera lì, una delle ultime sere in cui abbiamo fatto ‘la riunione’ (non si parlava ancora del metodo della condivisione), tutti parlavano e tanto, quindi sono emerse le teste forti: Silvano, il Bruno e non so chi altri ancora, ma certamente io e il Silvano abbiamo discusso molto… Siamo andati a letto tardi e al mattino trovo un foglio sul tavolo che dice: “Bruno, Enrica, ieri sera siamo andati a letto tardi, ma, almeno io, ho dormito poco e penso che anche voi avrete fatto fatica… ma fino a ieri sera io (era il Filippo questo) ero convinto che noi dovevamo governare la cosa e stamattina, dopo un po’ di preghiera, dopo un po’ di riposo, un po’ di luce nuova… sono sicuro che dobbiamo imparare… a stare nel casino”. Questa è stata una tappa importante. Fondamentale. Ci siamo tolti di dosso il dovere di governare il casino, capito? Che ogni famiglia se la governasse! Anche l’associazione, poi, non deve governare.

    Quindi così è nata la cosa: non c’è stato il modello Villapizzone. Il modello Villapizzone, se uno vuole crederci, sarebbe stato un modello totalmente strambo: un gruppo di Gesuiti (che non erano nemmeno riconosciuti dai loro), una famiglia stramba come la mia, altri strani… che modello è? Che ognuno sia sé stesso! Infatti il Card. Martini, quella sera che abbiamo fatto la cena a Castellazzo, lui aveva ascoltato tutti i gruppi che erano lì e quando ha preso la parola, sai cosa ha detto? ‘Io ascolto molto le persone, molte volte quando ne ho ascoltato uno ho capito tutto. Qui io ho ascoltato tutti, ma non ho ancora capito bene. E mi piacete per questo…’

    Eravamo omologati? No. Resistenti? No, perché avevamo appena cominciato, è dopo che devi resistere. Ma eravamo forse alternativi.
    Non è un caso che la prima volta che ho sentito la parola ‘alternativa’ è stata quando Martin Pierlot (un regista amico della comunità) aveva fatto un filmato per conto del Tribunale dei Minori, intitolato ‘Un’alternativa possibile’. Aveva presentato tre esempi: uno era la Cascina Basciana, del Comune di Milano, dove c’erano due famiglie dipendenti del Comune, poi c’era Don Gino Rigoldi, (con Comunità Nuova) che tirava fuori dal carcere i minori e faceva delle piccole comunità e poi c’eravamo noi. Ma noi eravamo ancora un’alternativa nell’alternativa, perché noi eravamo una famiglia, così come la famiglia Nicolai e le altre che erano famiglia punto e basta, non famiglie per l’accoglienza o famiglie di religiosi, ma famiglie in ricerca della propria strada. Gli stessi Nicolai hanno cominciato a prendere in casa delle persone, ma nessuno gli aveva detto di farlo, forse ce l’avevano nel loro DNA, quindi è stata proprio una alternativa… spontanea.

    Dopo, quando Pierlot e il Tribunale dei Minori, per ricordare i 25 anni, si sono messi in mente di fare un filmato, l’hanno fatto su di noi perché eravamo veramente un’alternativa possibile all’istituto e al collegio: le nostre case erano famiglie, con tutti i pro e i contro della cosa; in più la famiglia viveva in una comunità, quindi avevamo i vantaggi della comunità senza gli svantaggi.

    Avevamo la parola libertà, in quegli anni l’abbiamo coniugata molto (adesso si sente poco la parola libertà), abbiamo vissuto molto, siamo partiti da lì. Omologati non lo so, eravamo un po’ in fuga anche da un sistema.

    Non pretendiamo di essere chissà che alternativi, di chissà che cosa, ma quel poco che si può, perché qualcosa si può; ognuno deve trovarselo da sé il suo poco, non è che è previsto tutto, ognuno deve trovare la propria dimensione.

    Poi bisogna resistere. La R andava messa dopo: cominciare a essere un po’ alternativi è ancora tutto sommato facile, ma dopo bisogna resistere! Resistere nel sistema perché poi i figli… tutti fanno sport, fanno danza, vanno a suonare il piffero: rischiamo di diventare tassisti dei nostri figli, a portarli a spasso tutti i giorni.
    Ecco, alternativi: io credo che bisogna riflettere ogni volta su quello che stiamo facendo. Si può fare in altro modo?

    Così, riflettendo un po’ su quelle tre parole e riflettendo su quello da cui siamo partiti, facendo l’esame di coscienza, io e l’Enrica… tutto sommato c’è andata bene!

    Io un po’mi sento, se non un alternativo, un obiettore di coscienza integrale. Sono rimasto un po’ fuori dal sistema, ma alcuni mi dicono che però l’ho utilizzato, soprattutto adesso che vado all’ospedale. Però io le tasse dirette le ho pagate, non ho pagato sul reddito perché non l’avevo. Io onestamente non ho reddito, sento di essere in regola su questo anche con i miei figli, io non ho dato niente ai miei figli come eredità, se non… la mia vita. Certe volte mi son detto che mi piacerebbe parlare con un fiscalista per sapere se io sono stato un evasore; io non ho accantonato niente, niente di niente, io oggi non ho niente, io non sono padrone di niente. Questo mi consola: sono stato coerente.
    Ho pagato la mia parte alla società? Questa è l’altra domanda che mi devo fare. Ho il diritto di cittadinanza? Questo me lo sono chiesto tante volte.
    Una volta sono stato invitato a un grosso convegno a Torino, organizzato dal Ministero della Famiglia, e mi è rimasta molto impressa una frase che era sotto il titolo del convegno: “Ogni bambino ha diritto a una famiglia”. Allora io non potrei nemmeno chiedere il diritto di cittadinanza per il fatto che ho dato casa a cinque o dieci persone che avevano bisogno, perché quello è un loro diritto: di avere bisogno di una casa. Non sono stato bravo io e non posso rifarmi a quello per il mio diritto. Non l’ho mai fatto, ma ho capito che comunque non dovrei farlo.

    Poi arriva il Card. Martini con la sua domanda “Voi cosa dite di voi?”. Guarda che mi ha messo in crisi mica poco. Cosa devo dire io? Cosa devo dire alle famiglie che vogliono vivere in questo modo? Hanno diritto di avere un’opportunità.
    Per essere cittadini di un paese come questo, cittadini a giusto titolo: che cosa bisogna fare? Che cosa facciamo noi per il bene comune? Quale bene immateriale ho cercato di difendere o di recuperare?
    Forse devo fare un esame di coscienza: io sono riuscito a dare senso alle parole che uso? Sono stato capace? Sono servito a quelli che ho avvicinato, che si sono avvicinati a me, sono riuscito a dire… la fatica ma anche la bellezza? Dire il cammino per dare senso alle parole.
    Allora ho cominciato a riflettere sulla fiducia: ho veramente fiducia negli altri? La fiducia non è tanto dire ‘Io mi fido di te’; la fiducia è rendermi conto che la mia vita è appesa a qualche cosa ed è sostenuta dal mio vicino che non è per forza uno del mio clan, non è un mio familiare, un mio parente, uno del mio sangue. Giocare fino in fondo la fiducia è dire ‘Il mio futuro non è nel conto in banca, ma è nelle relazioni che riesco a stabilire’.
    Ma che tipo di relazioni ho? Per esempio, io mi fido realmente? Io ho l’impressione che l’ho fatto in pratica, senza ragionarci sopra troppo, infatti io, se fallisce questa roba qua, dove vado? Io spero di andare in un’altra comunità (speriamo che non falliscano tutte). Quindi io mi fido, ho giocato al gioco, capito? Non ho tirato via il piede…

    Valter: La parola fiducia ha cominciato a circolare con i Nicolai, con la storia dell’assegno in bianco.

    Infatti! Massimo Nicolai era venuto a dirmi: “Bruno, adesso che ho finito tutti i miei soldi, cosa faccio?”. E io gli ho detto: “Io non so cosa fai; ti do un assegno, vedi tu”. È nata così. Non ci abbiamo ragionato su. Lui ha preso l’assegno. E io non ho ma hai saputo quanto lui ha preso. Non volevo neanche saperlo, perché se l’avessi saputo, se era tanto io mi sarei mangiato le unghie e se era poco avrei detto “Mah…”. Invece io ero libero, quello che hai preso l’hai preso tu, l’hai deciso tu, non puoi andare a dire “Ma Bruno mi hai sfruttato”. In fondo la fiducia vuol dire “Io mi metto nelle tue mani”, come un marito e la moglie si mettono nelle mani l’uno dell’altro.

    Quando è nato Castellazzo, mi ricordo che ci siamo trovati in Caritas da Don Angelo Bazzarri, (era a fine carriera in Caritas) con quelli del Pio Istituto dei Figli della Provvidenza che avevano chiesto di fare un incontro lì, con Caritas e Don Angelo come garanti. Ci siamo trovati io, il Presidente della Caritas, Bruni, un uomo molto avanti negli anni, proprio un omone grande grosso, e Sandro Bellavite. Io e Don Angelo Bazzarri abbiamo fatto un programma per riuscire a fare Castellazzo: bisognava che i Figli della Provvidenza dicessero “Voi comperatelo e dopo lo prendiamo noi”. C’era forse anche Alberto Gallizia che era impegnato a trovare 500 milioni in prestito da una banca…: un prestito a Bruno Volpi?! Avevamo fatto tutte quelle cose lì, eravamo tutti belli contenti, ci salutiamo sulla porta, ci stringiamo la mano e qualcuno (credo il Bruni) dice “Da gentiluomini è sufficiente questo”. E non abbiamo firmato niente; io mi sono impegnato a comperare il Castellazzo a nome mio, facendo un prestito con la banca, dove Gallizia si faceva da garante; i Figli della Provvidenza si impegnavano a vendere una villa e con i soldi a comprare tutto entro l’anno… e tutto su una stretta di mano. E mi è rimasta in mente questa cosa: ‘da gentiluomini’, mi sono sentito chiamare gentiluomo… è stato bello.

    Io avevo fatto questo ragionamento (anche se il consiglio di ACF era molto scettico sul comperare una cascina): se un gruppo di persone composte da una famiglia allargata, delle famiglie aggiunte e un gruppo di Gesuiti in 15 anni (era il ’93 ed eravamo partiti nel ’78), ha potuto sistemare Villapizzone, riempirla di gente, fare una bella vita – perché eravamo tutti convinti di fare una bella vita (allora io non avevo mai sentito qualcuno dire che è più difficile, costa di più vivere in comunità che vivere fuori… lo sento dire adesso, allora no), … insomma io dicevo: se questo gruppo di persone sono riuscite a mettere a posto Villapizzone, non con i soldi degli sgomberi (con quelli hanno vissuto e sono riusciti a mettere da parte qualche cosa), ma con soldi donati…, bene, dopo 15 anni, siamo riusciti a mettere a posto Villapizzone, a recuperare tutti i soldi che c’erano stati prestati, anzi dati perché non era un prestito, ce li donavano, ma io lo sentivo come un prestito, noi avevamo lì 1.013.000.000 lire per comperare Castellazzo: mancavano 500 milioni. E dicevo: se questo è avvenuto con un gruppo di gente così, io non ho problemi a imbarcarmi nell’avventura del Castellazzo, perché se tanto mi dà tanto…

    Oggi la vita nelle comunità è molto più costosa (non sto giudicando nessuno). Mi dicono che i tempi sono cambiati, ma una famiglia normale, fuori, potrebbe avere una bella casa, magari comperarsela, pagare il mutuo, avere un pulmino per portare a spasso tutta la famiglia numerosa ecc…? Ma quando mai?
    Noi avevamo messo a posto Villapizzone, poi c’è stata la seconda ristrutturazione, dopo l’incendio, di un livello superiore rispetto alla prima, però non mi sembra nemmeno lusso, io non vedo lusso a Villapizzone. Invece in certe comunità non so se è lusso, ma è diverso…
    È tutto così indispensabile? Oppure si poteva immaginare un’alternativa? Io non ho mai pensato molto alla alternativa, per me l’alternativa era un bisogno, non era un’idea, un’ideologia… Anche il Papa dice di non far diventare anche la spiritualità un’ideologia: certo le nostre comunità devono essere molto spirituali, devono ricercare… se per spiritualità intendi un modo diverso di respirare…

    Valter: Arrivano alcune critiche da fuori, sulla realtà attuale; dicono: “Siete comodi, vi state facendo una buona vita per voi, fine. Non siete significativi, non siete produttivi per la società; siete in una situazione che va bene per voi…”.

    Una volta in una riunione di preti (300 preti giovani della diocesi di Milano), dove mi avevano chiamato a parlare sulla povertà, si alza un prete e dice “Io sono parroco di una parrocchia dove c’è una delle vostre comunità, voi vivete sopra i vostri mezzi”. Mi sono sentito morire. Se è così, è grave! Allora non abbiamo più diritto ad avere il convento di Cerro Maggiore o altre case… una casa più bella delle altre. No, non abbiamo più diritto. Se è così, è grave. Mi fa rabbia quando mi dicono così; è vero che i tempi sono cambiati ma, essendo cambiati i tempi, noi dobbiamo rispondere in un modo adeguato ai tempi di oggi.

    Mangiare biologico va bene, per l’amor di Dio, ma si può mangiare anche meno. È come dire che a vivere in comunità si lavora meno: io dico “In comunità si lavora in modo diverso”, devi decidere quanto vale il tuo lavoro produttivo di soldi e quanto vale il tuo lavoro produttivo di comunità, ma ci deve essere anche quello, se no non si sta in piedi.

    Io non ho mai vissuto in povertà, anche da piccolino non ho mai avuto fame, probabilmente i miei si tiravano fuori il pane di bocca per darlo a me (poi io ero l’ultimo…). Con i miei figli anzi, anche in Africa, hanno sempre avuto il necessario e oltre. Però cercavamo di usare quello che c’era in casa. E io facevo altrettanto sul cantiere, io usavo sassi, mattoni, legno, terracotta, tutto quello che potevamo fare noi. Ecco, questa è la povertà. La miseria io non l’ho mai conosciuta, ma nemmeno in Africa; forse i miei operai, mangiavano una volta al giorno; io non ero capace di mangiare una volta al giorno, però ‘povertà’ l’ho capito dopo cosa voleva dire, a modo mio, a modo da geometra, non da teologo che non sono, nonostante la vicinanza con i Gesuiti, ma da geometra: ho ragionato sulla parola povertà e a un certo punto ho preso il vocabolario e lo Zingarelli dice che ‘la povertà è colui che ha bisogno’ e allora mi sono spiegato un sacco di cose…
    Il Papa ha parlato di ‘rinfrescare le parole’, pensa che bello! Io dico di dare senso alle parole, lui ha usato la parola ‘rinfrescare le parole’, così come ha usato un’altra frase: ‘prossimità familiare’, comunità di prossimità familiare, pensa che bello; io dico familiarità, cioè la prossimità familiare produce familiarità: che non è sangue del tuo sangue, però è la prossimità familiare: bello!
    E sulla povertà io volevo dire al Papa: perché una volta per tutte non cerchiamo di dire pane al pane? Povero non è colui che muore di fame, chi muore di fame è un miserabile che è un frutto di un’ingiustizia. Povero è la condizione di tutti noi! Perché tutti noi abbiamo bisogno, tutti! Se il vocabolario è giusto, povero è colui che ha bisogno e beato è colui che riconosce di aver bisogno, perché se io riconosco di avere bisogno di te cercherò di andare d’accordo con te! Detta così è un po’ banale, è un po’ troppo semplicistico, forse Silvano storcerebbe il naso chissà quante volte!
    La prossimità familiare ci porta a dipendere l’uno dall’altro; se dipendi l’uno dall’altro non puoi mandarti a quel paese ogni volta che c’è qualche cosa che non va bene, perché tutti i giorni c’è qualche cosa che non va bene. Se io ho bisogno degli altri, farò di tutto per andare d’accordo. Io con mia moglie sono capace di tenere il muso tre giorni al massimo, e poi e poi… poi ritorno a chiedere perdono e a perdonare, per forza! Questa è la beatitudine: beati i poveri, beati coloro che riconoscono di aver bisogno! Perché se io non ho bisogno di te, come faccio a dire che ho bisogno del Padreterno, che non conosco e che non vedo?
    Io ho voglia di scriverle al Papa queste cose qui… Sarà una visione un po’ laica, però se uno non ha bisogno di nessuno, come fa ad andare d’accordo? Ed è uno dei peccati mortali della nostra società, ammettere di avere bisogno… chi è che lo ammette? È una vergogna ammettere di avere bisogno? Se tu mi presti un uovo, io domani mattina te ne rendo due, perché non voglio avere debiti… non voglio avere legami con te. Poi predichiamo le relazioni: ma la relazione avviene se io ho bisogno!

    Valter: Nelle tre parole O.R.A. la parola Resistenza è un po’ intesa come ‘se facciamo il possibile’ perché non si può fare di più?

    Quando si dice che oggi i tempi sono cambiati è vero: in una lettera che avevo scritto al Card. Martini dicevo proprio così, dicevo che mi arrabbio quando mi dicono che i tempi sono cambiati perché i tempi cambiano sempre; anche il ’68 non era come il ’50 e il ’70… Io non so prima, ma nei nostri anni c’era voglia del ’68, ma io sono andato in Africa prima del ’68, ero inquieto negli anni ‘50, negli anni in cui lavoravo nella Guzzi, forse lavorando in quel modo anche i sindacati mi hanno buttato fuori… Il mio parroco si consolava nel dire che ero “protestante” e invece mi hanno cacciato fuori ed ero uno che dovevano licenziare e poi non mi hanno licenziato perché abbiamo fatto 15 giorni di sciopero, però da manovale specializzato mi hanno messo a manovale comune e mi hanno mandato in un magazzino a contare pezzi, manualmente. I frutti delle sommosse e dei movimenti degli anni ‘60 hanno prodotto negli anni ‘70 persone che volevano andare in Africa come missionari laici, come servizio civile all’estero, c’erano gli obiettori, gli scout, quelli delle parrocchie, insomma arrivava gente già sperimentata in un certo qual modo o già in movimento. Quello era il terreno dal quale veniva fuori chi si rivolgeva a Comunità e Famiglia. Oggi arrivano famiglie… vergini: piene di ideali, di amore per Dio, per il creato, per la gente, per i poverini, per i poveretti, poveretti di qui, poveretti di là… e il Card. Martini mi dice “Ma non è questo che giustifica l’esistenza della vostra Associazione?! Ammesso che lei sia in grado di dare a tutti quelli che vogliono provare, l’opportunità di provare, di ragionare sulle parole che usate”. Capito? Strumenti e opportunità per provare, dice… È solo questo che vi giustifica oggi, non tanto quello che fate, ma il fatto che date l’opportunità agli altri di ragionare. Però io dico che questo ha un costo e guarda caso, mentre facevamo un po’ di carità, qualche bambino, qualche cosa così, abbiamo raccolto parecchi soldi, gente che ci ha aiutato tanto, guarda solo Villapizzone… Oggi invece, non siamo più capaci di portare a casa una lira. È così! Qualcuno di noi ha provato a elaborare un’idea di autosufficienza… capito? Si sta in piedi se si è in pareggio, come gli eco-villaggi… No! No, noi non dobbiamo, noi dobbiamo avere bisogno degli altri! Se no ci perdiamo i valori che dicevamo! Ci vuole qualcuno che ci obblighi, essere in debito! Filippo Clerici, una volta in cui gli ho chiesto cosa vuol dire temere Dio, mi ha detto “Porlo al posto giusto”. Ecco. Temere un debito bancario va bene, ma aver paura è un’altra cosa: avere paura di avere un debito con gli altri è deleterio! Io devo avere un debito, se no mi siedo.

    Mi omologo se non ho più la forza di dire “Cavolo, quelli là mi hanno aiutato. Perché mi hanno dato tanto? Perché il buon Testori ha messo dentro 1 milione di euro qui, a Berzano? Che cosa gli abbiamo fatto credere? Ma allora… Io non voglio che le famiglie si riempiano la casa di bambini… no, però un po’ alla volta uno si fa delle domande, magari ci impiegano dieci anni, ma prima o poi arrivano a capire… e cambia qualcosa…

    Il mondo di Comunità e Famiglia è nato non per fare comunità, ma per aiutare tutti quelli che hanno voglia di fare un certo cammino, il proprio cammino. E chi non ha voglia… amen, pazienza, nessuno dice come deve correre… però, muoversi!
    E aiutare tutti: non è un’associazione per fare comunità, ma per gente in cammino. La comunità è un patto di solidarietà, tra famiglie, tra persone che si aiutano, per sostenersi, per resistere, per mettere in pratica.
    Bisogna che venga fuori che noi, per fare queste cose qui, abbiamo bisogno degli altri.