Chiacchierata di Bruno con Valter, Pio e Cristina
Sotto il cedro di Villapizzone, 2015
Bruno: Bisogna ammettere che veniamo da un contesto che ci ha insegnato che non fidarsi è bene e che chi fa da sé fa per tre. A un convegno intitolato “Praticare la fiducia” ho detto che io ero contrario e ho contestato il titolo. Perché se dici “praticare” dai per scontato che tu ce l’hai e la pratichi. Io avrei detto “Coltivare la fiducia”.
Pio: In effetti sembra facile, ma fidarsi è complicato.
Bruno: Io dell’Enrica mi fido ciecamente, ma non posso dire che mi fido ciecamente di tutti gli altri. E poi sono fortunato: ho vissuto tutta la vita sulla fiducia, dopo averla imparata in Africa. Per forza dovevo fidarmi degli africani! Lì ho fatto otto anni di stage sulla fiducia ed ero costretto a imparare. Ero in foresta e dovevo costruire delle case e una scuola; se volevano potevano darmi un colpo in testa ed ero finito. Non ero neanche muratore, io sono geometra; però i miei operai africani neanche quello, sapevano solo pasticciare qualcosa. Sapete cosa vuol dire tirare su una casa? Che deve stare in piedi, tenere su il tetto e con loro così: devi proprio essere costretto a fidarti per venirne fuori. E alla fine diventa uno stile di vita.
Pio: In effetti anch’io sono abbastanza convinto che la fiducia è legata al fatto concreto, alla situazione: sei lì, in qualche modo devi fare. Quando insegnavo a Ponte Lambro, nel ‘deserto dei tartari’, con quei ragazzi sciamannati, lì se non te la giochi un po’ non ne vieni fuori… Anche adesso, dopo venticinque anni di lavoro così, si è capito che puoi fare il lavoro con voglia, con gusto; e la differenza è questa qua: che se si lavora con gusto, per il gusto, le cose le fai bene. E se io le cose le faccio così è perché vivo bene, mica perché sono bravo; se no vivi male, stai male tu.
Bruno: È necessario anche prevedere cosa consegue dal mio fare o non fare, in un modo o in un altro e saper indirizzare il lavoro un po’ anche verso quello che viene dopo. Se una cosa la fai tu o la fa un altro, se entri nell’ottica della fiducia cerchi di prevedere che quell’altro poi non si debba arrangiare. Cerchi di dargli una occasione, trovare un aggancio.
Cristina: Questa è la generosità, un contaminarsi, che poi fa fiorire.
Bruno: Sì, ma non è soltanto generosità, è anche buon senso. Al contrario, io ho visto in comunità scopare le scale e alla fine lasciare lì il mucchietto, bello, ben messo, che poi qualcun altro si arrangerà. Si tratta di entrare in un’ottica diversa. Che io ho bisogno di te. Allora non sono bravo io, ma, poiché ho bisogno di te, comincio a ragionare con te in un altro modo, ad esempio ti tratto bene. È una sorta di egoismo: io non faccio così perché sono bravo, ma perché ho bisogno di te. Sono giustamente egoista: ho bisogno di te, quindi non ti mando a quel paese se mi schiacci un piede. Ma se non avessi bisogno di te, cosa farei? È una teologia laica questa qui. Non dobbiamo scomodare i massimi sistemi, è semplice: se io riconosco la mia povertà, cioè il mio bisogno, allora mi viene spontaneo andare d’accordo con te. Mi viene addirittura spontaneo fidarmi di te, perché ho bisogno. È buon senso.
Pio: A me aveva colpito diversi anni fa – inizi anni Ottanta – quando capitava di venire a Villa, magari per caricare il vetro col Mato Grosso: mi piaceva proprio (e anche agli altri del gruppo), perché era un bel caos organizzato, c’era un bel caos, una cosa che funzionava bene; mi sembra di ricordare l’impressione che ci fosse veramente un bel clima di movimento, assolutamente bello, pazzesco. E non sembrava una cosa da parte tua, di Massimo e di voi altri, un essere qua ‘per essere a servizio’. Eravate qua perché vivevate qua, senza essere a servizio di un accidente… Eravate qua, punto, perché la vostra vita era questa, e in santa pace facevate la vostra vita, con una certa apertura a quello che c’era intorno.
Valter: Perfetto, molto vero. Ma il tema di oggi va proprio a toccare in quella direzione, perché da fuori qualcuno dice: “State facendo solo i fatti vostri”, l’isola felice… e sulle sovvenzioni pubbliche: “Perché vi danno gratis la casa? Qual è l’utile sociale che producete?”; e poi anche dall’interno qualcuno dice che non siamo qui per il fare: “L’importante è che tu sia realizzato; non sei qui per fare un sacrificio, un servizio, qualcosa per gli altri”; e qualcun altro capisce “Bene, allora, posso rallentare, possiamo stare seduti”.
Pio: Questo in un certo senso succede dappertutto, nel senso che le cose le fai – ad esempio in missione – e sostanzialmente è una maniera per educare se stessi. Mica vai la per insegnargli a vivere, “insegnà ai gatt a rampegaà“.
Bruno: Idem in Africa: loro sono capaci di vivere e anche con niente… Quando io ho cominciato a Villa, con i Gesuiti, non volevo mica fare comunità coi Gesuiti, non conoscevo neanche la parola ‘comunità’, allora era ‘gruppo’. E i Gesuiti han detto, “Noi ci mettiamo lì”. E al Nicolai, quando è venuto, mica gli ho detto di fare comunità, gli ho detto “Se vuoi venire… guarda lì…”. La Danila mi dice ancora “Quella volta mi hai fatto vedere una stanza che per andarci dentro dovevi scavalcare le macerie e arrampicarti su…”, e allora ha detto “Dov’è la stanza?” (con la bambina in braccio…) (risate). Adesso, per fare comunità si dimenticano queste cose qui. Tutti devono andare d’accordo, bisogna prendere le decisioni… Oggi si vuole ‘costruire’ la comunità… È un pericolo. La comunità sei tu e lei, e poi se ci sono, sono i figli.
Quello che manca oggi nelle comunità è quel casino organizzato; ognuno con la sua responsabilità. Filippo insisteva sulla responsabilità ‘abile a dare una risposta’. Tu fai tutto quello che vuoi, però quando ti si chiede “perché?”, “dove vai?”, devi rendere conto. Quindi non quello che vuoi e basta, ma quello che sei in grado di giustificare. Una volta è venuto un gruppo di scout grandi, per aiutarci, e li abbiamo mandati nel campo a zappare. E uno di loro mi ha chiesto “Ma perché io devo zappare per voi?”. Perché? “Buona domanda” dico io. Martini, da par suo, diceva: “Voi cosa dite di voi?”. Cosa diciamo? Che abbiamo un bambino in affido? E un assessore di Milano mi dice: “Caro Volpi, se noi dovessimo dare una cascina a tutti quelli che si prendono un bambino…”. Una volta l’Enrica era lì nel parco, a ciapà l’ombra, e arrivano due donne del quartiere che vedevano dalla finestra il movimento, vengono e dicono “Possiamo venire anche noi a prendere un po’ di fresco?” È nata così la cosa! Era estate… e l’Enrica si è detta “Chi sono io per stare qui, nel parco? E loro invece no?”… Bisogna farsi queste domande. Ecco che cosa giustifica tutta questa faccenda, quale il nostro diritto di cittadinanza.
Valter: Grande! Nel Bilancio Sociale ci andrebbe questo titolo: “Enrica: ‘Chi sono io per stare qui nel parco?’”.
Bruno: Una volta avevo scritto al cardinale, la solita battuta sugli anni Settanta, che una volta la gente aveva già fatto esperienze, chi in Africa chi in politica, chi da altre parti, poco o tanto erano tutti un po’ sperimentati, ma a quel punto invece cominciavano ad arrivare famiglie ‘vergini’, a digiuno, diciamo, appena sposati o quasi. Martini, mi rispose “Non bisognerà mica andare tutti in Africa per arrivare a capire certe cose”. Ecco, questo fatto giustifica l’associazione: dare a tutti strumenti e opportunità. Dobbiamo accettare ‘tutti’, tutti quelli che vogliono camminare. Non solo in comunità. Ecco perché esiste questa associazione: noi gli diamo la bicicletta, gli diciamo il minimo indispensabile, che intanto cominci a pedalare, impari… Non puoi dire a uno “Stai fuori, perché…”.
Cristina: In effetti c’è un po’ in giro l’ansia di diventare un po’ troppo grandi – bisogna organizzarsi, dare definizione, confini, contorni precisi… un’organizzazione, un organigramma.
Bruno Le motivazioni! Questo deve curare Mcf. Senza un modello rigido. Filippo diceva: “Stiamo facendo una comunità di comunità”, dove ognuno è responsabile, autonomo e in rete. In rete, quello è il minimo. La Provvidenza ci ha aiutati a strutturarci in modo tale da non concentrare le cose. Comunità e Famiglia, perché volevamo il bello della comunità e la libertà della famiglia, in comunione con gli altri. Ci siamo costituiti per ‘favorire esperienze di comunione’. Poi siamo diventati tanti, ci voleva un punto di riflessione e di mantenimento del carisma.
Pio: Tornando un po’ all’origine, tu sei venuto qua perché non avevi altro, adesso invece la maggior parte delle persone ha anche altro, ha tante via d’uscita…
Bruno: Se arriviamo a pensare alla pensione integrativa, dove va a finire la fiducia, l’affidamento reciproco? Noi non siamo nati per i bilanci. Non cerchiamo un professionismo, ma vogliamo giocarci la vita. La cassa comune deve essere radicale, se no è inutile. Chi la fa, la faccia bene. Se no, non la faccia; non è mica obbligato. Giochiamo o facciamo finta di giocare? Se in una comunità nessuno fa la cassa comune, allora cosa resta? Faranno delle cose, magari buone, faranno un buon vicinato, ma l’essenza che viene fuori dall’esperienza di Villa è altro. La cassa comune è l’icona. Al Papa volevo dire perché non chiede ai cristiani: “Dove mettete i vostri risparmi? Dove rendono di più?”. Mcf non è nata per costruire comunità. È nata per costruire gente! Aiutare a far crescere le persone. Come i Gesuiti ci hanno aiutato a crescere con la coscienza… Il problema è la conversione dei cuori. Thellung dice ‘la conversione dei buoni’. Martini parlava di ‘beata inquietudine’.
Pio: Per quanto mi riguarda, io mi sento un fortunato. Favorito dalla vita, dalla storia, dall’abitare in un posto magnifico, in comunità. È tutto tranne che dura. La questione casomai è ‘sentirsi di passaggio, un po’ provvisori’. Il caos organizzato che dicevamo prima è un muoversi, mentre stai vivendo e facendo; io odio le case dove è già tutto a posto, tutto fatto.
Bruno: Anche le nostre case devono avere un tema di provvisorietà. La responsabilità: tu sei la tua famiglia, sei responsabile, e sei dentro questo sistema, ti prendi la responsabilità di qualcosa (della foresteria, dell’orto, di quello che vuoi), in un sistema insieme con gli altri: chi verrà nell’orto seguirà le tue indicazioni, poi col tempo si cambierà e si aggiusterà il tiro. E intanto si cresce, in responsabilità e in ascolto reciproco. Mentre uno dei problemi di questa società è che nessuno è responsabile, tutti hanno paura di prendersi le responsabilità. C’è paura e le cose si buttano là, chi verrà dopo si arrangerà. Allora capisci che il nostro voler fare cammino ci rende utili alla società, saremmo una cosa degna di stare al mondo, nulla di più, ma neanche di meno.
Pio: Sì certo, una cosa difendibile e a suo modo profetica.
Bruno: Ecco! Certo, profetica! La nostra associazione cerca di dare senso a delle parole, cerca di trasformarle in vita vissuta. Il Papa parla di ‘rinfrescare le parole’. Una delle cose che cerchiamo di realizzare, il Papa l’ha chiamata ‘prossimità familiare’. Quello che io dico familiarità. Ecco, tra una famiglia e l’altra che cosa c’è? C’è una prossimità e una familiarità, perché non sei mio figlio, ma sei lì, sei un mio familiare, cioè se non ti vedo mi preoccupo, se va via e non torni… io mi interesso.
Cristina: Sei mio prossimo, c’è una vicinanza fisica e anche di relazione.
Bruno: Ecco, un posto dove si sente la possibilità di amare e di lasciarsi amare. Dovremmo essere un posto dove si dà possibilità, l’occasione di amare e farsi amare? Ma cosa è amare un estraneo, uno che non è del tuo sangue? Io ho avuto in casa tanta gente e ho capito perché il Vangelo parla di cuore di sasso… Come si fa? Noi dovremmo sdoganare il tabù del sangue. Come si fa ad amare l’altro come uno dei miei figli? Una ragazza una volta mi ha detto “E’ proprio quel come, che non mi piace”.
Cristina: Anche i figli nostri non sono nostra proprietà.
Bruno: Ecco, brava, è lì la soluzione. Se io non sono capace di amare questo estraneo come il figlio, magari è perché sto sbagliando ad amare mio figlio! Per mettere in pari la bilancia, non posso alzare questo (l’estraneo) a livello del figlio, ma al contrario posso abbassare il figlio. Smettila di amarti te troppo, di essere egoista ed egocentrico, te e il tuo sangue. Quando mia figlia Paola mi ha detto “Papà, quello lì fa quello che vuole, e io invece devo fare quello che dici tu…”. Le ho detto “Io vorrei che lui facesse quello che gli dico, ma non lo fa!”. “E allora non lo faccio neanch’io”. E lì ci siamo liberati! Tutti, loro da me, e anche io da loro. E finalmente ho potuto guardare mia moglie, ho recuperato mia moglie: ho potuto guardarla bene, come moglie amante amica, tutto. E sono geloso dell’Enrica.
Cristina: Per noi che siamo una famiglia ‘composta’, con i miei figli e i suoi figli, questa riflessione è fondamentale. Pio mi insegna, molte volte non si fa un discorso di parti e differenze, mio figlio o tua figlia… Lui è bravo a prendere la giusta distanza, a me parte molto la pancia, però è bello, il condividere, il raccontarsi, il parlare di questo.
Bruno: Anch’io ho fatto fatica, quante volte ho detto all’Enrica “Io ho fatto meno fatica di te, perché ho dovuto imparare anch’io ad amare i ‘tuoi’ figli”. Voi vedete la Peppa Pig? Io la odio, mi fa arrabbiare, perché quel povero papà lì fa proprio la figura del fesso. Dico all’Enrica “Uè, spèta un mument, calma! Io no, no così…”. Facciamo di quelle discussioni, a settantotto anni…! Mica voglio avere tutte queste donne tutte adosso, a questo povero uomo; io non voglio mica essere trattato così, come questo papà Pig… – Ma queste cose pubblicatele solo dopo che sono morto… (altra gran risata) –. Una volta parlavo a un gruppo di condivisione, c’era anche l’Enrica, ed erano stupefatti a sentire queste cose: se anche Bruno e l’Enrica hanno ancora di questi problemi qui… Facciamo di quelle discussioni io e l’Enrica, su niente!
Valter: Cristina, tu che sei donna, e che sei recentemente entrata in questo universo, qual è la tua impressione? La tua ricerca adesso, la domanda che ti gira dentro? Come si incontrano la storia di Bruno e la tua domanda? Cosa ne viene fuori?
Cristina: Mi collego con quanto dicevi prima: io non ho fatto alcun percorso di discernimento, anche se ho lavorato molto nel sociale, sono realtà che mi hanno sempre affascinato dall’esterno, lo stare insieme, l’aspetto della solidarietà. Io ho una storia un po’ diversa, avendo sposato prima una persona che non condivideva niente di tutto questo (magari con la sfida di volerlo cambiare io) e mi sono giocata questo rapporto sul tema della fiducia. Per me adesso il tema della fiducia è quello centrale, vitale. Se no, non puoi avere relazione. Io cerco di vivere questo rapporto del fidarsi dell’altro, e per me avere fiducia vuol dire anche scoprirsi, raccontarsi, anche sputtanarsi, parlare anche della tua fragilità, dire “io arrivo fino qua”. Credo veramente tanto in questo fatto del contaminarsi. Poi sono arrivata alla comunità di Galbiate e ho conosciuto Mcf stando dall’altra parte, dalla parte dell’accolto. Ho sperimentato chi mi ha accolta, la solidarietà, l’accoglienza. Con tutti i problemi che avevano anche loro, e tutta la mia confusione, ho vissuto la comunità di Galbiate come uno stare dentro la pancia della mamma, ed è stata una bella cosa, perché quando sono uscita, sono stata generata, rigenerata. È stato proprio un vivere un travaglio, che era mio, ma era anche di mettersi a confronto con questa bella realtà, quella delle famiglie che magari un po’ idealizzi, e senti di avere dentro un gran bisogno. Forse la mia fermezza e salvezza è stata proprio quella di saper dire il mio bisogno, saper chiedere, saper bussare alla porta, con dignità, non solo come vittima, perché un po’ c‘è il momento di essere vittima per tutto quello che ti è accaduto, però poi arrivi a dire “io esisto, la mia vita c’è”, nella consapevolezza che ciascuno di noi ha veramente delle cose da giocarsi. Adesso sono io che ti chiedo, ma io posso anche darti, anch’io ho qualcosa da dare. E questo io ho potuto viverlo a Galbiate, al di là dell’essere vista come bisognosa, ho instaurato delle relazioni significative e importanti, alla pari. Poi dopo ho incontrato il Pio…
Bruno: Ecco, tu adesso hai raccontato e spiegato la beatitudine del povero: beati quelli che ammettono di avere bisogno. Come dice la lingua ebraica: povero è colui che ammette di avere bisogno e sta in piedi, a fronte alta, davanti all’altro: il povero dritto. La miseria è altra cosa ! Quella centra con l’ingiustizia. Noi invece, tutti siamo poveri, è una qualità antropologica, si nasce così.
Cristina: Un’altra domanda che mi gira dentro, ma sento che è un po’ diffusa: la comunità, è per fare o per essere? Si dice che la comunità è per chi ha la pancia piena, per chi ha già una sua base economica. Mentre chi ha veramente bisogno di una casa andrebbe in comunità non per scelta, ma per bisogno. Secondo me è una questione di coscienza. Io la vera ricchezza che ho sempre avuto sono gli amici, le relazioni, il prossimo. E su questo ho un senso di responsabilità. Quando sono arrivata, sono uscita da una casa, sono uscita da una situazione in cui non avevo più nulla, non avevo più niente, solo un lavoro e le relazioni, e tre figli… E io sento un senso di responsabilità, mi sento di averlo. Perché non posso vivere un’esperienza come questa?
Bruno: Io quando sono venuto a Milano avevo solo cinque figli, come ricchezza, e non ero neanche capace di lavorare. I Gesuiti quando sono venuti qui volevano andare ad aggiustare gli ombrelli per vivere, e io gli ho detto che erano matti e di venire a fare sgomberi con me.
Io non voglio che Mcf diventi quello che dico io. Storicamente le comunità di famiglie non esistevano, e io dicevo: “Noi non siamo venuti qui per pregare, se mai preghiamo perché siamo qui”. E neanche per un progetto, ogni famiglia è un progetto. Di questi tempi si parla molto di ‘no tax area’. Io ho fatto questo tutta la vita, ma come fai a dimostrare che hai vissuto con 8mila euro all’anno? E non aver voluto un reddito più alto? E l’ho potuto sostenere perché sono insieme ad altri. Se due o tre o quattro famiglie si mettono insieme, vivendo con quel reddito, ce la fanno, soprattutto se sono in un sistema solidale, ed ecco l’associazione. Noi potremmo dire qualche cosa su questo. È qui l’inghippo. Il Papa lo dice che bisogna aiutarsi, ma come? Ecco noi abbiamo realizzato un sistema, e potremmo anche validarlo adesso. Ma bisogna essere più coerenti, più essenziali. A questo serve Sichem: ad agitare un po’ le acque. La cassa comune, se non è radicale, che roba è ?
Valter: Sichem è il contrario della regola, la regola ti direbbe ‘cassa comune si fa così, punto’. L’interpretazione libera porterebbe a che ognuno faccia da sé. In me c’è la libertà insieme alla coscienza, il porsi insieme delle buone domande, il cercare soluzioni adeguate e coerenti.
Bruno: Sì, serve. Perché prima la cassa era implicita, scontata. Oggi, si fa una associazione di promozione sociale, dove alcuni decidono di fare un patto di solidarietà, come due sposati con la condivisione dei bene, e basta. Più bello di cosi!?. Due o tre o cinque, chi vuole, lo fa, ma lo fa seriamente…