Chiacchierata di Bruno ed Enrica con Paolo (giovane non appartenente al giro, che è stato colpito e incuriosito da interviste precedenti, convocato come stimolo), Enrico e Valter Coti
Berzano, febbraio 2017
Valter: Cominciamo! Paolo, come mai sei qui? Cosa cerchi?
Paolo: Ho letto altre interviste e mi piacerebbe proprio conoscervi. Dove mi capita un’altra volta di incontrare gente così?!
Enrica: Ma… cosa c’entro io? Oscc… (espressione tipica dialettale, per dire bonariamente ‘state alla larga da me’, come se non ne valesse la pena).
Valter: E invece tutti noi sappiamo bene quanto c’entra l’Enrica…”
Bruno: A proposito del libro che magari viene fuori da queste interviste, mi piacerebbe coinvolgere il Crippa, quello che ha poi scritto il primo, per dirgli: “Vieni a vedere come è poi andata”. A suo tempo non pensavamo io e l’Enrica che servisse granché. Invece, in effetti, ne sono state fatte tre edizioni. Sai che una donna mi ha telefonato dicendo: “Sai che sono sul letto mal messa, con l’ossigeno…, quando sono depressa e scoraggiata leggo qualche pezzo di quel vostro libro e mi dà coraggio”. Oh Dio santo, se devo avere anche questo sulla coscienza…
Valter: Uno che ha detto con entusiasmo che parteciperà a questo percorso è il Francoforte…
Enrica: Ahh! Sì, da lui me lo aspetto, ci vuole proprio bene. Pensa che è arrivato a diciotto anni da noi… già alcolista, ancora nei primi anni di Villa. Grande e grosso… è stato con noi fino oltre i trent’anni, ma in modo alternato. Perché andava e veniva, diceva che gli mancava l’aria. È stato in giro, anche all’estero, faceva cose anche buone, tutto quello che faceva lo faceva bene, gli riusciva, e poi l’alcool… Aveva provato di tutto, compreso un intervento, poi finalmente ha accettato di ricoverarsi all’ospedale in Trentino, e lì, dopo tre mesi, è scappato, si è buttato giù dalla finestra. Quelli non lo volevano più. Non si è fatto neanche troppo male e si è fatto portare qui vicino a noi, al Sacco. Ma là in Trentino era nato un bel rapporto con una ragazza, e così poi, per lei, per amore di questa donna, è venuto fuori dall’alcool. Sono sposati da trent’anni, non ha più toccato vino. Hanno adottato una bambina indiana. Franco adesso è una persona che sta pagando caro tutto quello che ha passato; si deve curare per tanti malanni; ma regge… regge.
Valter: E tu, come l’hai vissuta quella vicenda? Che strada ha fatto fare a te, una storia così?
Enrica: Una storia lunga quindici anni e non è ancora finita lì. A volte è stata dura, non è sempre così facile. Forse accettarlo, all’inizio forse solo non rifiutarlo. A casa era un problema col Bruno: lui lo puntava proprio, ma la casa la sentiva come casa sua, mentre da sua mamma, quando ci andava, andava a far vedere il peggio. Da noi invece, quando stava, lavorava, anche bene; poi ad un certo punto gli mancava l’aria e andava via. Faceva cose in giro, anche valide; quando andava via, era nel momento bello, come se avesse raccolto le forze, si sentiva pronto. Stava via qualche mese; è diventato anche primo cuoco, però poi l’alcool… Allora si sbatteva a terra, lo dovevano rimpatriare e arrivava da noi… Vederlo arrivare così conciato… Una volta, forse l’unica volta, ho sentito uno dei nostri figli dire “Basta, no, Franco basta…”, a loro pesava tanto… Ho in mente una volta, una discussione violenta! Che ha fatto col Bruno (perché era con lui che se la prendeva, quando aveva qualcosa, era con lui… suo padre era il Bruno): ha preso Bruno in un angolo, grande e grosso com’era, e lì lo doveva affrontare, gli veniva fuori di tutto. Una volta fuori, che pioveva, sotto il cedro là in mezzo, ma mi sembrava di sentirli qui vicino, tanto gridavano. Io non potevo andare là, perché era cosa loro. Poi hanno chiamato Bruno al telefono, per fortuna, e lui è venuto in casa, e Franco che gli corre dietro “Vieni ancora dopo?”: aveva bisogno di quegli scontri. Adesso ci sentiamo per telefono, qualche volta, a volte viene ancora per ospedali… Eh, ci sarebbe tanto da dire. Adesso è Francesco, per tutti. Ma io lo chiamo sempre Franco…
Una volta che aiutava per gli sgomberi doveva trasportare una vasca da bagno, di quelle vecchie tutte di ghisa, aveva il mito della forza, ha voluto portarla da solo: “La porto io, la porto io!”: ha voluto portarla da solo, ed è rimasto sotto! E il Bruno l’ha lasciato sotto un bel po’, prima di andare a tirarlo fuori…
Valter: Avevo cercato anche la Fiorenza, ed era contentissima, l’idea le piaceva proprio tanto. Ma non ce l’ha fatta. Che ricordo hai di lei?
Enrica: È stata la prima ragazza che è entrata in casa nostra, insieme all’Emilia. Eravamo ancora nella casa all’entrata. Un aiuto che è entrato in casa, ma è stata anche una delle prime volte che ho fatto fatica ad accettare delle ragazze di quell’età lì, che in casa loro non erano abituate ai mestieri, era più uno studio per loro: stavano con i nostri figli, li aiutavano per i compiti, ma i mestieri di casa? A me pareva che il lavoro fosse raddoppiato, più che un aiuto. Quella cosa mi aveva colpito tanto, forse perché era la prima volta per me, due donne che ti entrano in casa… casa ‘mia’… che poi è diventata ‘casa nostra’. È stata una bella scuola. In tutti questi anni è stato tutto un cammino. Ti rendi conto, magari dopo, col tempo, quello che ti hanno dato, la strada che ti han fatto fare, le persone entrate, tutte.
Bruno: La nostra vita è stato un po’ quello, un adeguarsi ogni volta a quello che la vita ti proponeva. Noi non siamo andati a cercare nessuno, neanche i figli.
Beniamino, da gesuita, diceva proprio che uno che entra in comunità è bene che sappia che non può restare così, stando fermo, aspettando che il cielo la mandi buona. Dovrai camminare. Devi essere almeno consapevole che dovrai per forza camminare, perché la vita ti spinge…
Enrica: Noi non abbiamo avuto il problema se entrare o no in comunità, perché la comunità non c’era in quel momento. Noi avevamo il bisogno di stare bene. Quando siamo rientrati dall’Africa siamo stati qualche tempo a Mandello, ma non stavamo bene. È quello che ci ha fatto muovere di nuovo. E siamo andati a cercare. Noi diciamo sempre che, visto da dopo, è la Provvidenza che ha tirato le nostre fila, ci ha fatto muovere così. E io ci credo. Perché, è vero, stavamo così tanto male che dovevamo fare qualcosa. Noi avevamo provato per ben otto anni a star bene e adesso… perché star male? Padre Barbieri, intanto, insisteva che andassimo con lui a Cooperazione (diventata poi Coopi): perché non accettare? Anche se faceva paura, con cinque figli… però l’abbiamo fatto. Sono stati sempre degli spintoni che ci hanno mandato avanti, sì, per farci cambiare, farci camminare.
Paolo: Interessante è come avete reagito agli spintoni.
Bruno: Quando siamo tornati dall’Africa… perché non siamo rimasti là? Avevamo delle proposte, dal Ministro dei Lavori Pubblici… Siam venuti via piangendo e andavamo verso l’ignoto. Sapevamo che andavamo verso problemi: cinque figli in un’Italia che era molto cambiata. Noi siamo andati via nel ’63 e tornati a casa nel ’71: l’Europa tutta era cambiata…
Enrica: Alla fine, è che i figli crescevano. Siamo venuti via per i figli, per la scuola. Era quello il motivo, almeno il più evidente.
Bruno: Diciamo il più comprensibile da parte di tutti. Compresi gli africani, i miei operai. Io sapevo che non sarei più tornato… Io credo che è importante dire dei sì all’inizio. Quando si è giovani, si può fare anche delle cose un po’ fuori. Però, come fai con cinque figli? Cosa vai a dire ai tuoi genitori? Che tornavo giù con cinque figli, senza sapere… Siete degli incoscienti, ci han detto.
Enrica: Quando eravamo a Cooperazione con padre Barbieri e passavano i giovani che si preparavano a partire per il Terzo Mondo si è dovuto fargli cambiare mentalità.
Bruno: Far cambiare la mentalità a questi ragazzi che si preparavano a partire e pensavano di fare un’opera buona, una buona azione. Farli cambiare e dirgli “Guarda che andate giù a imparare a vivere!”.
Allora si parlava della fame nel mondo, cinquant’anni fa, e siamo qui ancora adesso. Quindi era giusto andare a dirgli: “Siete matti, che la fame ci sarà sempre finché non cambiano le cose qui.”
Per noi era una doppia battaglia: coi milanesi e con quelli che volevano partire. E lì era anche peggio, perché c’era l’ideologia in quegli anni: volevano andare a coscientizzare il mondo. Ma cavoli, se non pulite il cesso, volete andare a coscientizzare gli africani?! Ma come ti permetti di dire certe cose? Si leggeva Paulo Freire e altri, ma andava bene allora per il Brasile, perché quelli dicevano e facevano, e se andava male si facevano sparare… questi qua, invece, se andava male tornavano a casa. Io citavo la barzelletta dello scout che faceva attraversare la strada alla vecchietta quando non le serviva di attraversare.
In Africa era stato più semplice… Una volta si diceva ‘bruciare le barche’: lì, per noi le barche ce le ha bruciate qualcun altro, è stata la vita, la fede. Io ero in crisi, in quel senso lì, l’Africa mi ha smontato l’educazione da seminario che avevo: vado dal gregoriano al villaggio, con la gente in chiesa che si muove, canta, allatta (io ero scandalizzato a vedere un seno scoperto).
E allora la vita è più forte di quello che possiamo immaginare, basta giocarla. Ed è importante non tirare via il piede. Come faceva Graziani (del Torino o della Lazio): correva dietro a tutte le palle perse, senza essere un campione ma per caparbietà, e faceva gol. Ecco, questa cosa io la prendevo come esempio: se la vita ti porta a fare una scelta, anche coraggiosa, l’importante è non ragionare troppo.
Il mio cammino di fede, è stato un po’ anche quello: dal seminario sono andato in fabbrica, che a quel tempo era un bel laboratorio, poi gli anni in Africa, poi a Milano e paesi vari a cercare lavoro per mantenere la mia famiglia; e poi a fare sgomberi, in queste case dove ci chiamavano spesso a smontare perché si erano separati, e lì impari.
Poi queste persone che ti entrano in casa… e un po’ alla volta diventano tuoi figli.
Ricordo sempre Leonardo, un tipo mitico, lui non voleva assolutamente che dicessi che era mio figlio; però una signora in un trasloco una volta dice: “Che bravi questi ragazzi… sono tutti tuoi figli?”, e lui era lì, con le orecchie tese, aveva un sesto senso, e stava aspettando che io rispondessi: mi è venuta un’ispirazione e ho detto: “Leonardo è uno che sta diventando mio figlio e io sto imparando a diventare padre”; basta, è stato risolto il problema, e se ne è andato contento. Eh sì, era uno pazzo: viveva alla Sacra Famiglia, rinchiuso, li dividevano tra gravi e leggeri, lui era nei gravi; quando è arrivato da noi prendeva sei pastiglie al giorno; da noi pastiglie non ne hanno più date… ma ne ha combinate. Lui ha imparato a leggere venendo con noi in camion, guardava fuori e ha imparato la prima parola ‘b… bar…’, ha imparato a leggere le insegne; poi lo abbiamo mandato a quella scuola, le 150 ore, e poi ha preso il diploma di terza media.
Enrica: Quando eravamo a Coopi (Cooperazione Internazionale) la casa ci si è riempita subito: eravamo in sedici, diciassette, tra adulti e ragazzi, anche già di una certa età, che cercavano di capire cosa volevano fare, cosa cercavano dalla vita. Abbiamo cominciato a vivere insieme, ma sentivamo che era pesante, una responsabilità troppo grande, che non eravamo in grado di prendere. Una sera siamo usciti a fare due passi nel quartiere, io e Bruno, e ci dicevamo che sarebbe stato bello se ci fosse stato un prete che fosse venuto a stare con noi, che ci desse una mano. E poi, d’un colpo, ne sono arrivati sei! Sei gesuiti. Anche loro erano in cerca di casa. E abbiamo trovata Villa e siamo andati insieme.
Valter: La Provvidenza che abbonda. Ma dimmi, per te donna, che effetto ti ha fatto entrare in quella situazione? Che era un rudere, non molto invitante.
Enrica: Oh bella! ma dai! [con entusiasmo e con gioia] Avevo il parco da una parte, il giardino dall’altra…
Bruno: E nel rudere c’era su un muro la stella delle Brigate Rosse… e Filippo ci ha aggiunto la coda, ne ha fatto una stella-cometa!
Enrica: E li è diventata la cappellina. Dove poi Filippo stesso ha fatto i voti.
Mi ricordo che un giorno ero lì seduta su una panchina, sotto la magnolia (mi piaceva lavorare a maglia) e mi dicevo: “Ma come mai a me?! Come mai a me succede questo?! Perché? Come mai io devo avere la possibilità di stare qui, in un posto del genere, quando le persone che abitano nelle case intorno hanno solo un balconcino, quando è tanto. Chi sono io per avere così tanto?”. Quella cosa lì mi ha sempre colpito. Anche le case che poi abbiamo cambiato, a Castellazzo e poi qui a Berzano: sempre belle. Ma ci hanno anche aiutato a capire, come quando siamo rientrati dell’Africa: è stato venendo via, prendendo la distanza, che abbiamo capito quello che l’Africa è stato per noi; così anche quando siamo andati via da Villa, è stato doloroso e pesante accettare una cosa del genere, non l’abbiamo fatto alla leggera, però è proprio prendendo le distanze che abbiamo capito quello che Villa ci aveva dato. Ci ha fatto riflettere.
Bruno: Per gente come noi, che veniamo da piccoli paesi… non sapevo neanche che esisteva la magnolia a Milano. Ci è capitato proprio di entrare in un mondo sconosciuto. Anche le relazioni che sono nate poi a Villapizzone; quelle che avevano i gesuiti, che avevano tutto un seguito, che poi è diventato anche il nostro seguito; e il fatto degli affidi che ci ha aperto le porte del Tribunale dei Minori… io che non avevo mai visto un tribunale. E anche l’incontrare sei gesuiti, Silvano che era un teologo sopraffino e però anche lui si poneva dei begli interrogativi, anche sulla fede. Quante volte ha detto che, se non avesse incontrato Villapizzone era convinto che non avrebbe continuato a fare il gesuita. Io capisco il Papa che adesso dice “Il cristiano non deve fare proseliti”, probabilmente è proprio così: cose che adesso tira fuori il Papa, ma noi le avevamo già sentite, da Martini, dai nostri gesuiti.
Valter: Anche Paolo è uno che cerca… va in giro con una bibbietta in tasca.
Bruno: Eh, fai bene! Io credo che non bisogna preoccuparsi più di tanto, la vita… capire un po’ quando è il momento giusto di cambiare, di lasciare… il resto viene. Avere un po’ di “lasciarsi vivere”.
Quello che mi meraviglia, adesso, dopo tanti anni, è che sento ancora gente giovane come te che con altre parole (come io usavo parole diverse da quelle della generazione precedente), con altri metodi e anche altro coraggio, stanno cercando ancora le stesse cose, di dare senso al tutto. Al tutto che è anche un po’ incomprensibile. E questo mi piace, sentire che sono cose universali: c’erano ai tempi di Gesù, e dopo duemila anni siamo ancora qui.
Enrica: Devi fare un passo, oltre. Una volta che hai fatto il primo, dopo gli altri vengono e non ti costano neanche, perché hai visto che ti sei trovato bene, che l’importante è muoversi, nonostante le fatiche.
Anche nella nostra famiglia c’era un po’ di tutto, dieci, dodici persone, problemi ce n’erano, ma si poteva vivere bene, si viveva bene. Dipendeva da me, il clima che si creava in famiglia. Se io ero tranquilla, se non me la prendevo troppo… e lui mi ha aiutata, tutta la vita, vedeva che se non ero tranquilla, se me la prendevo troppo, mi diceva “Lascia perdere, che te ne frega? Questa cosa ti fa star bene o ti fa star male? Se ti fa star male, lascia perdere!”
Così ho imparato, ad accettare: se vivi bene, se accetti tu quello che c’è, crei anche un clima sereno in casa. Perché, se non sei serena tu, gli altri son subito agitati, perché tu te la prendi con tutti e tutto.
Abbiamo imparato a bere ‘il bicchierino di me ne frego’ che mi aveva detto uno dei gesuiti una mattina che ero un po’ inversa: “Un bicchierino di ‘me ne frego‘ tutte le mattine”.
Bruno: Un bicchierino che ti consente di capire che non siamo noi i salvatori del mondo. Ecco, un’altra frase tipica del Filippo: “Non siamo noi quelli che devono organizzare il casino, ma imparare a stare nel casino”. Perché la tentazione c’è, di mettere in ordine. Ma cosa vuoi mettere in ordine? Magari è bello così.
Ai miei tempi girava l’idea che il volontariato era il contrario del colonialismo, che quelli avevano depredato e noi andavamo a restituire. Noi i bravi… Ma io cosa avevo? Niente. Io sono andato giù ingenuo, mi han detto di fare una scuola, poi è diventato un collegio, e mi son trovato lì con trecento operai, che non sapevano fare granché, e anch’io non ero capace. È stata una scuola, per noi! Come poi anche qui, noi non eravamo capaci di fare i genitori, soprattutto di chi non hai partorito. Come fai a esser capace? Nessuno poteva arrogarsi di dire “Io so come fare”. Neanche i gesuiti. È stato un cammino di crescita insieme, di fede, reciproco: loro in un modo e noi in altro. Noi abbiamo sicuramente insegnato qualcosa ai gesuiti, l’han detto più volte, ma loro han insegnato qualche cosa a noi.
Così come i figli, naturali o no, ci hanno costruiti come genitori. Anch’io avrei voluto impuntarmi ad esempio che a scuola si va… e se poi non andavano? È stato tutto un dover imparare dalla vita. Ma la vita è un insegnamento! Io credo che è così per tutti, dopo dipende dalla capacità che hai di accettare… accettare il rischio. E allora i compagni di strada diventano utili. Perché tutti ti insegnano qualche cosa. Ti costruiscono. Io sono convinto che ancora oggi c’è da imparare. Intanto convincersi che c’è da imparare. E poi convincersi che anche il Francoforte, o un Franco qualsiasi, ha qualche cosa da insegnarti. E te lo sta insegnando, nonostante te. Quello è il bello.
E io con l’Enrica, siamo arrivati a capire che la famiglia non è figlio-centrica. Non è imperniata intorno a un figlio, ma è coppia-centrica: siamo stati noi due, lei ha detto ‘l’ago della bilancia’, siamo stati noi due, volenti o nolenti! Sia quando reagivamo bene, sia quando perdevo le staffe e reagivo male. Però eravamo noi a dare il tono. E poi tra di noi, imparare anche nei nostri confronti, è stato un cammino. Cinquantaquattro anni di matrimonio… è stata una bella maratona!
Enrica: E gli ultimi chilometri, mi sa che sono faticosi anche quelli. Non è che perché hai fatto gli altri… agli ultimi chilometri si stringe i denti.
Bruno: Io dico, guardate che siete al traguardo, ma dalla parte della partenza…
Valter: Una bella icona di quegli anni era il camion: in tutto quel casino di vita e di lavori, dopo pranzo, c’era sempre un camion parcheggiato lì sotto gli alberi, con loro due che andavano lì a farsi la pennichella… Come dire: era il centro di quel mondo. Questi due qui che devono volersi bene tra di loro…
Bruno: Per forza, perché in casa c’era troppo casino.
Enrica: È sempre stato un rifugio, nostro. Nostro, nostro, e solo nostro! Non permettevamo ad altri, e lo sapevano tutti…
Bruno: Bisogna relativizzare un po’ tutto. Anche l’amore. Noi siamo capaci di farlo, malamente! È un amore, come dicevo prima, ‘vario… ed avariato’. Ed è bello, perché è così. La vita ci pensa a purificarlo un po’. Bagai giò de doss, ma anche moglie, giò de doss. Noi mica dobbiamo andare in paradiso così abbracciati. Chi l’ha detto? Io devo render conto di quello che ho fatto io, mica di quel che fa lei. Non posso appropriarmi del bene che ha fatto lei e scaricare le mie colpe su di lei.
La vita è così: è piena di cose belle e cose brutte e io devo imparare dalle une e dalle altre. Siamo stati capaci di rispettarci, anche nella nostra autonomia: l’Enrica in cucina ci mandava via e non soltanto in cucina! Ed è giusto. Francoforte a me mi mandava a quel paese, litigavamo, e se non siamo arrivati alle mani poco ci mancava, ma quando parlava l’Enrica… parlava l’Enrica!Anche con le donne che sono venute da noi, che sono entrate nella ‘sua’ cucina, e lei diceva sempre di no, io non ho mica bisogno di aiuto… eh, imparare ad accettare l’aiuto degli altri è stato un bel cammino, mica da poco. E anche io ho dovuto imparare: bagai giò de doss l’ho imparato un po’ alla volta. Ognuno porti il suo zaino, semmai si accetta di andare adagio (ti aspetto), ma ognuno porti il suo zaino, faccio già fatica a portare il mio.
Mi sembra uno stile di vita necessario, per vivere una vita così. O impari, o ti fai del male.
Valter: Qui vien fuori la saggezza accumulata nei quarant’anni…
Enrica: Eh…, la miseria! Più vai avanti e più ti rendi conto della miseria, altro che della saggezza.
Bruno: Io mi rendo conto che ho il cuore di pietra. Ho trascinato altri, forse li ho illusi; e scopro che sono ancora di pietra io; faccio fatica…
Enrica: Questo io no, non mi sento di avere trascinato nessuno, piuttosto me li sono trovati in casa. E il cuore di pietra… ci sta. Quante volte con certi ragazzi, pieni di problemi e di bisogno, quanta fatica che ho fatto, ad accettarli, a tenerli in casa.
Bruno: Pieni di problemi, magari fisici, ma il problema vero era “Perché la mia mamma mi ha abbandonato?”; e sai che quella domanda tu non potrai mai saziarla. E si inventano storie… E il cuore di pietra tu ce l’hai, ma non puoi essere diverso, serve per prendere coscienza che ce l’hai…
Valter: Anche tra marito e moglie a volte ti senti di avere il cuore ‘avariato’: vorresti amare meglio, e non ci riesci. E poi, una certa sete non te la sazia proprio nessuno… Forse solo in Gesù, o forse solo nell’aldilà.
Bruno: La redenzione, io la vedo così: Lui ha tolto l’avaria che c’è nel nostro amare. Lui è un amore diverso e ci ha redento. Comunque, io non ci rinuncerei, dovessi rinascere cento volte, ripartirei sempre da zero, con questa storia. Il problema è che il mondo si illude, pensa di potersi redimere senza la redenzione. Credono di essere autosufficienti. Il mondo non è autosufficiente! Beati i poveri, cioè quelli che hanno bisogno. Gesù dice beati voi, quelli che riconoscete di aver bisogno; invece, quelli che si illudono di non aver bisogno, sono arrabbiati…
Enrica: L’unico peccato che non può essere perdonato è se non lo riconosci, non riconosci il bisogno.