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Dirò quello che ho capito io della mia vita

    Chiacchierata di Bruno con Valter, Davide e Paola

    cortile di Villapizzone, luglio 2015

    Dirò quello che ho capito io nella mia vita. Ho quasi ottant’anni: cosa ho capito io di tutta questa storia? Mi piacerebbe anche cercare di rendere conto. Mi piacerebbe che qualcuno mi chiedesse di render conto della mia vita, che cosa ho fatto; e vorrei poter dire che ho occupato il mio posto, giustamente, in modo giusto, non ho usurpato, non ho profittato, ho fatto la mia parte, nel modo che sono stato capace.

    Allora parto con una parola, che non è una parola in realtà: quel O.R.A., acronimo dell’Agorà di settembre 2015: Resistenti Alternativi Omologati. Mi è piaciuto molto. Una riflessione da fare in un’Agorà dove tutti possono dire a che punto sono, anzi non ‘possono’, ma dovrebbero: tutti, chi ha voglia di parlare almeno, deve dire quello che ha capito lui; non quello che dovrebbero fare gli altri o che dovrebbe fare l’associazione; devo dire ciò che ho capito camminando in questa strada. Oggi questo acronimo mi mette in discussione, mi fa pensare. Io credo che tutti abbiamo il dovere di comunicare agli altri, perché l’agorà è quello, non è una riunione dove dobbiamo decidere cosa fare, è un incontro dove diciamo dove siamo, a che punto siamo. A che cosa serve l’agorà, se non per capire a che punto sono io e a che punto è uno lontano cinquanta chilometri? Mi interessa! E credo che interessi tutti sapere il cammino, la storia, le fatiche, le gioie e tutto il positivo, il negativo e il dolore.

    Oggi arrivano famiglie vergini, non dappertutto, non in tutte le comunità, ma io incontro tante persone che passano perché vogliono informarsi, vogliono sapere. È gente che ha in mente l’ecologia, è una domanda che si fanno, parlano di ecovillaggio, ad esempio. Mi chiedono di spiegargli la differenza tra un ecovillaggio e una comunità delle nostre. E insomma, è chiaro per noi… però bisogna spiegarglielo.

    Con Martini facevamo questi discorsi e lui mi dice: “… ma è proprio questo il senso della vostra associazione: dare l’opportunità e l’occasione, strumenti e occasioni a tutti, non selezionare; a tutti quelli che hanno voglia di fare un percorso di autopromozione e di dar senso alla vita. Questo giustifica la presenza sul territorio della vostra associazione. Se no, cos’è? Non siete case di accoglienza, non siete delle case per minori, non siete una comunità terapeutica, cosa siete?”. Questa è la domanda che dobbiamo porci dopo tanti anni. È vero che i tempi sono cambiati all’inizio questo posto (Villapizzone) a Milano, e stava nascendo la legge sull’affido, era diventato un luogo dove si potevano portare tutti quelli per cui non trovavano un buco dove infilarli. Li portavano qui, e io ho dovuto fare uno sforzo, per spiegare che non eravamo una comunità! Figuratevi che una volta al telefono chiama una assistente sociale e dice all’Enrica: “Signora, domani veniamo a fare l’ispezione”, e l’Enrica risponde: “L’ispezione di che cosa?”. Avevamo preso un ragazzo, e per farcelo prendere ci avevano dato una retta di lire 15.000 al mese, allora l’Enrica ha detto: “Senta, noi non siamo una comunità, non siamo una casa famiglia, non siamo quelle cose lì. Quella retta, siamo disponibili a restituirla subito. Il ragazzo lo teniamo lo stesso”.

    Dopo ci è stato detto che così rovinavamo il mercato: ci sono le regole, ci sono i soldi, è un modo per aggirare tutto, voi siete i soliti furbi, non volete pagare l’IMU. Ma cos’è ‘sta storia, ci chiedevano…

    È da lì che dobbiamo partire, da lì che dobbiamo cominciare a ragionare.

    Io ho la mia di risposta: cosa c’è oggi di più derelitto, di più abbandonato al mondo, di più problematico? È la famiglia! Allora, noi non andiamo a fare le sfilate e a dire al governo di risolverci il nostro problema; ci alleiamo, facciamo una specie di comunità, possiamo dire ‘cortile di una volta’ oppure che cos’è che oggi manca nella nostra società?

    L’associazione, se andate a guardare gli statuti, non è nata per costruire comunità: non siamo una associazione che costruisce ecovillaggi o case solidali, o quello che è… no! No: ognuno deve costruire ‘la sua’ Villapizzone. Quella è l’icona, ma non dobbiamo copiarla. E l’icona è lì, però noi dobbiamo costruire ogni comunità; ogni “nodo territoriale” deve essere piccolo, non troppo grande, se no perde il senso; perché è il luogo dove ci si incontra, dove ci si racconta, dove ci si confronta e dove si agisce, se no, diventa un apparato.

    Quando io dico associazione, penso al “nodo”, che è il vostro contesto, nel quale introdurre chi si avvicina, introduceteli lì dentro. Devono confrontarsi non con voi che siete già avanti, devono confrontarsi con quelli che stanno facendo i primi passi; bisogna far nascere il bisogno, il desiderio. Io quando mi accorgevo che qualcuno mi prendeva troppo sul serio dicevo “calma, vai, pedala…”. I gruppi di condivisione sono nati per far pedalare. Perché avevamo fatto degli incontri, era arrivata tanta gente, e ci siamo spaventati: ci siamo detti “e adesso cosa facciamo? E allora abbiamo pensato ai gruppi di condivisione, gruppi di incontro basati sul metodo della condivisione come avevamo sperimentato in comunità, per dare la possibilità alle persone di incontrarsi e confrontarsi sui sogni, i desideri, accompagnarsi nella vita. Perché ciascuno facesse la propria strada, con gli altri.

    L’associazione ha questo scopo: di rinfrescare le parole, cioè riportarle alla memoria attualizzandole, renderle attuali, e così a un certo punto uno può dire: “allora vengo anch’io”. La comunità deve dare stimoli all’associazione, ma dall’associazione deve anche riceverne; se no ci si addormenta tutti, l’associazione diventa un apparato e le comunità si siedono, ognuno fa quello che vuole e lo giustifica anche…

    È come quelli che idealizzano la comunità dei monaci e delle suore; una volta mi avevano chiamato a fare un incontro con delle suore: una di loro mi prende in disparte e mi dice: “ma sa che io, quando vedo la mia consorella nel corridoio, mi giro dall’altra parte!”. E noi? Siamo diversi forse?

    L’associazione comunità e famiglia non è fatta per costruire comunità, è fatta per dare la possibilità a tutti di realizzare la propria vita: la comunità!… la tua famiglia è una comunità! E invece noi parliamo di comunità sempre, diciamo che ‘bisogna mettersi d’accordo’. Ma no, mettiamoci d’accordo che ci rispettiamo e basta. E invece per metterci d’accordo vogliamo arrivare tutti insieme… Bah! Ma quante palle!, non è così che è nata. Quando c’erano i gesuiti voi credete che i loro volevano ragionare con la mia famiglia? Ma per l’amor di Dio! So solo io le lotte che ho fatto con Silvano (padre Silvano Fausti S.J.). Non volevamo fare comunità. Loro erano una comunità, con tutti i loro problemi, noi eravamo una famiglia, e quella era la mia comunità. Quando sono arrivati i Nicolai hanno fatto la loro comunità. Però insieme, con un filo conduttore.

    Quando ci viene chiesto ‘voi cosa dite di voi?’, bisogna parlare dell’associazione, cos’è la nostra associazione?! E bisognerebbe aver letto ben bene lo statuto. Non va preso e messo da parte! Poi bisogna avere ben chiaro che l’associazione è una cosa, le comunità è altro. Perché le comunità di famiglie non esistono nella storia. Non esistono! Sono tutti o monaci o monache, e noi siamo più bravi degli altri? Noi siamo… nel cortile. E Villapizzone (quando si parla tanto di Villapizzone…) è nata come un gruppo di sei gesuiti in cerca di autore, e la nostra famiglia che eravamo sedici-diciotto, che non ci stavamo più, dove eravamo, e avevamo bisogno di una casa; ma la parola comunità l’ho scoperta dopo. Quando abbiamo fatto l’associazione e l’abbiamo chiamata “Comunità di Villapizzone”. Potevamo chiamarla cortile di Villapizzone, che è uguale. E questo è importante: perché io vedo in giro nelle comunità, che si perde un sacco di tempo, per arrivare tutti insieme. A che cosa? Pretendi che io, che ho quasi ottant’anni, accetti determinate cose che vogliono fare le famiglie giovani… Ma come si fa?

    Cosa è ‘bene comune’? La fiducia, un po’ di coerenza… Io voglio rispondere al Papa, perché sto leggendo l’enciclica, Laudato si’. Gli voglio dire: “senta, io sono d’accordo su tutto, però, caro Papa, bisogna dire ai cristiani tutte quelle belle cose che lei dice, ma bisogna anche chiedergli cosa ne fanno dei loro soldi. Dove li mettono? Perché si dice che dove c’è il tesoro c’è anche il tuo cuore.

    I cristiani, dove mettono i soldi? Anche Jean Vanier, in un ultimo libro che ho letto, dice “io sono sconvolto al pensiero che nel mondo ci sono un miliardo e trecento milioni di cristiani e il mondo va come va…”. Uno su sei è cristiano…

    Cosa possiamo dire noi? Ecco, anche per giustificare il fatto che siamo qui, che godiamo di un parco così, oggi. L’Enrica lo diceva sempre, quando era sotto la pianta davanti casa a prendere il fresco: “chi sono io per stare qui?” Ecco, credo che sia una delle domande da porsi. Essere omologato significa anche crearsi dei diritti, io ho diritto di non pagare l’ IMU? Ho diritto di non pagare l’affitto? È vero che le case noi le abbiamo messe a posto, però le stiamo anche usando, e l’affitto sarà quello lì: quando la casa è finita finiamo a un certo punto anche il credito.

    Mi avevano chiamato una volta a Roma per spiegare la cassa comune: al convegno dei frati economi del Mediterraneo c’erano francesi, spagnoli, italiani, e io ho spiegato un po’. A un certo punto uno mi dice: “senta, noi quelle cose lì, sappiamo come funzionano: anche noi nelle nostre case alla fine dell’anno azzeriamo il conto, ma prima della fine dell’anno noi facciamo tutto, in modo che poi non c’è niente da azzerare”. Bisogna stare attenti, perché anche i primi cristiani (si vede bene negli Atti degli Apostoli) si sono trovati in difficoltà. Poco dopo l’inizio della comunità una coppia – Anania e Saffira – ha imbrogliato consapevolmente la comunità ed è morta. Quindi vuol dire che se non giochi il gioco, o muori tu o muore la comunità.

    E poi le dispense (alimentari). La sobrietà non può essere uguale per tutti: non si può trovare un livello di sobrietà dove tutti ci stanno, chi l’ha fatto ha fallito. Io credo che la sobrietà è un problema di coscienza e di coerenza. E anche di tempi. Ci sono dei momenti dove si possono fare alcune cose, e dei momenti in cui non si può. La Bibbia dice che c’è un momento per nascere e c’è un momento per morire, c’è un momento di mangiare, c’è un momento di riposare, c’è un momento che i bambini sono piccoli e c’è un momento che i bambini sono grandi. E la sobrietà si deve coniugare anche con altre cose. Omologarsi: la sobrietà ha qualche cosa da dire con l’omologazione? Il consumismo imperante? Noi siamo nati nel consumismo e ci sembra che tutto sia necessario. Venirne fuori non è mica facile.

    Ecco, io non sono d’accordo che sobrietà è uguale a povertà. Io avrei molto da dire sulla povertà: sobrietà è anche una questione di testa, di cuore, di tutto. Per esempio, amare in modo smisurato il proprio figlio, non è sobrietà. Poi lo paghi, e lo paga anche il figlio. Quindi, anche su questo bisognerà ragionare, nelle comunità e nei gruppi di condivisione. Sono queste le cose da discutere, non come fare la stanza da bagno.

     

    E la sobrietà tocca tutti campi, tutti: è giusto che i vostri figli sappiano nuotare, ballare, giocare a tennis e sciare?

    Se sei solidale con qualcuno, si fa questo cammino insieme, qualcuno con cui condividi delle risorse, perché c’è qualcun altro che le condivide con te; e allora posso abbassare il livello di consumi, perché non sono da solo, perché se no non ce la farei, sia in termini pratici e concreti, sia nei confronti dei miei figli; cioè per i bambini. Io scelgo, come coppia, uno stile che è molto particolare, diverso da quello esterno, e devo riuscire a giustificare ai miei figli, perché quelli la fanno così e io no. La solidarietà, anche in quel senso lì, ti aiuta a dire ‘guarda che non sei solo, stai vivendo qualcosa che secondo me è bello, e tu capirai che è bello magari più avanti; però guarda che c’è anche altra gente di fianco a noi che lo fa; anche noi lo possiamo fare perché c’è altra gente di fianco a me che lo fa.

    Quando incontro gente che viene a conoscerci, dico loro di andare a vedere un po’ le comunità, perché incontrino cento teste, cento modi di vedere la comunità. Le buone pratiche ci sono, ma ognuno è diverso.  Anche il Vangelo c’è da duemila anni, ma ognuno lo interpreta come è capace, magari anche onestamente. Siamo diversi, ci mancherebbe altro! Anzi, per fortuna che siamo diversi! C’è chi è più avanti anche in un cammino di fede, e chi è più avanti in un cammino di comunità, e chi invece ancora non ha capito niente; va bene tutto! Va bene tutto, l’importante è essere coerenti con sé stessi, ma anche con la coerenza della comunità.

    Il Papa parla della cura della casa comune (usa quasi parole che usiamo noi): cura della casa comune. Però, chi deve curare la casa comune? Un ente superiore che cura la casa comune non ci sarà mai! Ci vuole che ognuno si prenda l’impegno per gestire la propria parte ma anche gestire i propri casini.

    Davide: Diversità: secondo me è stata una delle intuizioni migliori, l’accettazione delle diversità, e tenere la diversità dentro le comunità. Se pensiamo ad altre esperienze di questo tipo, l’omologazione magari dà garanzia che lì si faccia tutto bene, giusto secondo chi ha fondato, però si forma la piramide, e poi è escludente. Tenere dentro la diversità è un messaggio di libertà. C’è uno sforzo di accettazione l’uno dell’altro.

    Se sei diverso, non vedi una cosa come la vedo io, va bene, però non è mica colpa mia: bagai giò de doss!

    Valter: la famosa battuta di Silvano che diceva “Dici che non riesci a digerire il tuo vicino. Ma chi t’ha detto che lo dovevi mangiare? Perché dovresti digerirlo?”.

    Questo è il primo pilastro! L’apertura implica la differenza. L’accettazione è accettazione proprio della differenza: io non scelgo. Mi evito la paura: “Ma chissà chi è quello là. Chissà cosa fa. Cosa mangia…”. È molto importante questo, nella comunità. Martini, l’unica volta che è venuto a cena a Castellazzo, era Sant’Ambrogio, aveva la febbre ed è venuto lo stesso perché aveva preso l’impegno. Ha cenato con noi, poi ci siamo incontrati con le 7-8 comunità che c’erano allora. Le ha ascoltate tutte, una a una, e poi ha detto “io quando vado in giro, quando ne ho sentito uno li ho sentiti tutti. Qui invece ognuno ha detto una cosa diversa dall’altra, che non mi ricordo neanche più cosa avete detto. Ma mi è piaciuto! Mi piacete perché coltivate la diversità”. Capito?, ha detto ‘coltivate’, non ‘voi siete capaci’. Bisogna coltivarla! E se non c’è un’associazione che fa nascere questi bisogni, bisognerà andare tutti in Africa?  Perché noi e quelli subito dopo di noi venivano da volontariato nel Terzo Mondo (si chiamava così allora) e là avevano imparato tanto… ma l’esperienza deve essere a portata di tutti coloro che si mettono in discussione, oggi. E l’associazione, e tutti noi, siamo qui per far sentire il profumo della condivisione.

    L’accoglienza si vede nel modo in cui si ristrutturano le case. Isaia dice “Se introduci l’orfano, la vedova e lo straniero in casa tua… la tua ferita si rimargina”. Questa frase mi ha sempre fatto pensare: tremila anni fa Isaia dice che noi abbiamo una ferita dentro e che abbiamo bisogno dello straniero per farcela guarire. E oggi, allora? Quante ferite abbiamo dentro?

    La ferita che ho io è che non sono capace d’amare chi ho introdotto a casa mia come mio figlio. E allora qual è la riflessione che ho fatto io? Amavo troppo il figlio “fatto da me” e facevo troppo il papà e dimenticavo quell’altro. Capisci? A questo concedo tutto, mentre con l’altro sono molto lucido, e vedo tutte le cose sbagliate che fa. Ma è questo lo straniero, il compito dello straniero, è di guarirmi la ferita che ho dentro! Non è bontà mia che lo prendo, è lui che ha diritto a una casa, ha diritto di mangiare, ha diritto di aver un vestito: ha un diritto! Non è bontà mia. E imparo a prenderlo così com’è, a guardarlo con il cuore.

    Sulla povertà bisognerà capire: il Papa insiste, e io ancora una volta avrei qualcosa da dire sulla parola povertà, che lui usa. Sono andato a guardare il vocabolario e dice ‘colui che ha bisogno’: chi di noi può dire di non aver bisogno? Sono tutti poveri! Siamo poveri tutti. Io vorrei dire al Papa che è ora di finirla di confondere la miseria con la povertà! La miseria è frutto dell’ingiustizia, la povertà è la nostra natura umana! No?! Perché allora, la beatitudine della povertà è: ‘siccome io ho bisogno di te e lo riconosco – ecco beati i poveri di spirito -, allora sono beato. Perché io, nonostante che tu sei uno straniero io riuscirò a trovare un appiglio per andare d’accordo con te, perché io ho bisogno di te!

    Sai cosa ci ha salvato, a noi, in parte? Gli obiettori, il fratello maggiore, l’obiettore era il fratello maggiore che stava lì un anno e poteva anche permettersi di fare tante cose, liberava noi genitori.

    E poi i gesuiti ci hanno aiutato perché ci correggevano. Magari ero stato un po’ duro con qualcuno, e Filippo (padre Filippo Clerici S.J.) mi diceva “non tirare troppo la corda che si rompe”. E io: “Sì, però, Filippo, poi ci devo stare io con questo qui!” Anche mia figlia maggiore mi ha aiutato: perché diceva “lui non è tuo figlio, e può fare quello che vuole, e io devo fare quello che dici te…”; aveva 16-17 anni; e io dicevo “Paola, ascolta, almeno te, non rompere; io vorrei fargli fare quello che voglio, però lui non lo fa mai! Vuol fare quello che vuole”. “E allora devo farlo io quello che dici tu? Ciao!”, ha detto lei. E così mi ha liberato dal fare il padre a ogni costo. Tutti mi hanno liberato, e tanto! E loro si sono liberati da me!

    Lo straniero, mi ha obbligato a guardare mia moglie: il Bernardelli (uno dei giovani che è stato a casa nostra per un po’ di tempo), mentre stavo cercando di fargli fare i compiti, mi guarda con una faccia, e mi dice “Cosa vuoi tu, che non sei neanche mio padre?”; e lui, che era già stato in tre case ed era riuscito sempre a farsi mandare via, mi dice: “guarda tua moglie”… Oh, la miseria, cosa ti ha fatto le Enrica? penso io. Ce n’è voluto per capire che lui, proprio perché i suoi genitori non si guardavano e si picchiavano…, lui è finito così. Allora, io l’ho immaginato, l’ho interpretato: lui aveva paura che se io non guardavo mia moglie, lui finiva di nuovo in istituto… altro che! Non voleva farsi rimandare indietro, e ci ha messo al nostro posto, come dire, voi non siete gli operatori sociali, il progetto deve essere per gli operatori sociali: voi siete i genitori, voi siete marito e moglie, voi dovete amarvi. Ci ha fatto capire che il figlio non è il centro della famiglia, il figlio è il frutto della famiglia. Se no, lo soffochi il tuo povero figlio; poi se ne hai uno solo, peggio…

    Davide: arriviamo alla parola famiglia: tu una volta avevi detto che la famiglia è il luogo in cui uno si sente atteso. Bellissimo, però è inevitabile che l’associazione, e noi tutti, dobbiamo affrontare le sfide che le nuove famiglie portano; che sono anche le famiglie che si separano e rimangono in comunità, magari un pezzo o tutte e due, e chissà che un domani altre forme di famiglie si avvicineranno. Risposte, noi come al solito non ne daremo, però dovremo saper accogliere, gestire…

    Sobrietà! Bagai giò de doss! Se no ti sbranano. Tu non sei Dio… Quel che arriverà, si vivrà come si potrà!

    Davide: la parola dono è relativa al tema della riconoscenza, per la fortuna di poter vivere questa esperienza. Vivendo questo dono capisci che la stessa esperienza ha un limite, e quindi non è tutto rose e fiori. Ci vuole la tua dose di fatica e devi imparare ad accettare che vivere in queste situazioni da certi punti di vista, logistici, è più bello e più facile, rispetto a vivere in un condominio in un appartamento, e dall’altra parte non ti toglie dalle fatiche della vita, che ci sono.

      Il disincanto non svalorizza il dono, anzi: se togli via un po’ di orpelli viene fuori la perla! Su questo dovete lavorare molto, nelle famiglie, nelle comunità, nei gruppi che avvicinate: smontategli l’idea. Ho letto un libro di uno che ha girato tutto il mondo in cerca di comunità, ci ha messo dentro anche ecovillaggi, comuni e tutto; alla fine ne fa riassunto e dice che quelle che sono fallite sono quelle che erano troppo spirituali, troppo ideologiche e troppo idealiste.

     

    A chi si avvicina dovete dire che la montagna è fatica! Dovete dirglielo! Perché quello che vogliamo non è una cosa che ci omologa, e nemmeno vogliamo solo fare resistenza; la resistenza è conseguente all’alternativa: avete fatto una scelta alternativa, quindi bisogna resistere. Martini, quando ci ha salutato, era sulla porta e ci ha trattenuti, gli tremavano le mani, non stava già più in piedi, era un anno prima che morisse, ha detto “resistere, resistere, resistere”. Resistere, ostinati nell’alternativa! Quindi bisognerà dirlo che andà in muntagna se fa fadiga. Se no, state in pianura, va bene anche la pianura.

    Molti si illudevano, sognavano: una comunità dove si va d’accordo, dove si prega, dove… e io gli ho detto “senti, qui non siamo venuti per pregare, se mai preghiamo per stare qui!” I gesuiti facevano la messa un quarto alle sette di sera, nel momento più critico della famiglia, proprio perché non volevano che noi ci sentissimo obbligati ad andare. Poi magari andavo, o magari andava l’Enrica, o stavamo a casa tutte e due, ma questo è bello: con libertà. E invece, a volte quando si parla di Villapizzone… Cavolo, lasciatelo dire a me che cos’è Villapizzone, per favore! Non è quello che voi immaginate di Villapizzone. Non l’abbiamo voluta noi così la baracca. La baracca ce l’ha regalata il Padreterno…!

    Davide: Però alcune cose che accadono, ad esempio la coppia della comunità che si separa, fa sbarellare la comunità, perché non tutti la vivono nello stesso modo. Ed è una cosa di un certo peso, non è come porre attenzione al vegetariano o al biologico: non abbiamo la ricetta…

    Secondo me, non bisogna farsi coinvolgere più di tanto. Se uno te lo senti addosso, se ti fai carico tu del suo problema non serve. Manicardi (fr. Luciano Manicardi – Bose) parla della comunità e c’è un brano sull’ascolto in cui dice che in fondo l’altro non ha bisogno che tu gli dica qualche cosa, ha bisogno di essere ascoltato. A me viene in mente un gesuita, che adesso è morto: io e l’Enrica eravamo andati da lui, avevamo delle proposte; lui ci ha ascoltato e poi ci ha detto “guardate, io sono uno specchio, voi dovete specchiarvi dentro di me perché voi sapete cosa dovete fare”, non ci ha detto niente, “io vi ascolto, cerco di aiutarvi a chiarire quello che state dicendo, però io ho capito che voi avete già deciso, sapete già cosa dovete fare”. Manicardi dice un po’ la stessa cosa: “l’altro ha bisogno di essere ascoltato”. L’ascolto è una cosa difficilissima: io con l’Enrica quando cominciava a parlare, dopo tre parole avevo capito già tutto quello che mi voleva dire… Invece no! Non ho capito niente. Facevo di quelle figuracce. E dopo mi arrabbio con me stesso, ma Enrica pensa che mi arrabbio con lei. Facciamo di quelle scenette… da vecchietti. Ancora adesso: proprio di due che non hanno niente da fare.

    Davide: questo mi fa pensare alla condivisione, condivisione con la pratica dell’ascolto, che è una scoperta che noi abbiamo fatto qui, nell’ambiente di comunità e famiglia, perché è una pratica unica secondo me. Non esisteva nell’ambiente da dove venivamo: ora sto parlando e in quattro state zitti, e magari cercate anche di non giudicare, e fermate un attimo la vostra testa per non giudicare, che è ancora più difficile.

    A proposito di non giudicare, a Verona, in un incontro dove ero andato a spiegare il metodo che usiamo noi, un uomo mi dice: “Mi piace, sono d’accordo, però sul non giudicare, non sono d’accordo: perché è impossibile non giudicare, mentre tu ascolti il tuo cervello si fa un’idea. Il problema non è fare esercizi per non giudicare, il problema è non usare l’idea che ti sei fatto te, ma cercare di capire le ragioni dell’altro, non il giudizio che tu ti fai”.

    È naturale che avvenga, ma non va usato! Va dimenticato, per concentrarsi sulle ragioni per cui lui si comporta così. Non è facile. Però è giusto. Io gli ho dato ragione e gli ho detto: “Hai ragione, mica è facile ma bisogna dirla bene questa cosa del non giudizio, perché non si può imporre una cosa quasi impossibile, però è possibile”.

     

    C’è un libro di Bonhoeffer che parla della comunità e in un punto dice che ‘una comunità nasce dalla delusione della comunità’. Una frase forte. Bonhoeffer era un esperto di comunità, perché aveva lavorato in seminario. Dice che una comunità va avanti se ci si perdona. Bonhoeffer era protestante, e i protestanti si confessano davanti a Dio e davanti ai fratelli, e io mi domandavo: come possiamo fare noi? Come faccio io a confessarmi? Silvano l’ha spiegato: “se tu ti confessi non dici io vi perdono, ma ‘vi chiedo perdono’. Non devi perdonare l’altro, che ti ha fatto qualcosa, ma devi chiedere perdono per te, che ti sei arrabbiato. Che l’altro ti ha fatto una cosa, che ti ha fatto dispiacere e tu ti sei arrabbiato, chiedi perdono perché ti sei arrabbiato”. Ribalta tutto, e così la comunità va avanti. È questa la faccenda del vivere in comunità.

    Ora io non sono stato molto capace nella mia vita in queste cose qua. Però qui a Villapizzone c’è stato un periodo dove eravamo trentatré adulti… trentatré! Mi è rimasto in mente che un mattino, trovo un foglio sul tavolo, di Filippo… (Silvano no, tu ti arrabbiavi e dopo dieci minuti per lui era come prima, anzi, arrivava giù con un dolce che gli avevano portato, e lo dava a te; e così non si poteva nemmeno chiedere perdono perché… era ovvio). Trovo quel foglio di Filippo, con scritto “Sai Enrica, sai Bruno, io stanotte non ho dormito molto e penso che anche voi non avrete dormito tanto… Però io, fino a ieri sera ero convinto che noi adulti avevamo il dovere di gestire il casino; stamattina, pregando un po’, ho capito che noi dobbiamo imparare a stare nel casino, non a gestirlo. Non avere la pretesa di governarlo”. Queste cose non posso dimenticarmele, perché a me veniva voglia di gestirla la cosa, mi sentivo anche responsabile: se falliva Villapizzone io dove andavo? Non poteva fallire.

    I gesuiti quando erano in casa in meno di tre, non facevano nemmeno da mangiare: uno andava di qui, uno andava di là, e ognuno aveva il suo modo. Filippo in un modo, Beniamino un altro, Gaetano un altro, Silvano t’immagini… Era bello, noi abbiamo avuto questa grande fortuna. E forse, se non ci fosse stata quella composizione, non sarebbe nato niente. Non è una cosa che va mitizzata, che va copiata; Silvano, quando siamo andati a Castellazzo perché stava nascendo la seconda comunità, diceva a me e all’Enrica: “pensate bene, a che cosa dovete portare”; non ci ha detto che cosa, ha detto pensate bene a quello che avete vissuto, e cercate di capire qual è il nocciolo.

    Abbiamo una fortuna… ti immagini che vita!