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Che cosa avete capito dell’essere famiglia, in questo vostro cammino?

    Chiacchierata di Bruno ed Enrica con Valter, Elena e Claudio. Comunità della Pagnana, 2016

    Bruno: Volevo parlare di questo ideale, questa fiamma che c’è, che dobbiamo tenere viva. Martini (il cardinale Carlo Maria Martini, ndr), mi aveva detto: “Tu non devi andare a cercare soldi, devi andare a far innamorare la gente di questa idea”. Ma che idea è, che idea abbiamo? L’accoglienza? Secondo me non è quello, noi non siamo una comunità di accoglienza. È più facile dire quello che non siamo. Ma allora che cosa siamo?

    Tutti parlano di stili di vita, dal Papa all’ultimo dei parlamentari: noi possiamo dire qualcosa sugli stili di vita, in modo che sia speranza per la società e per tutti? Questo mi sembra importante, dobbiamo cercarlo tutti! Tutti dovrebbero porsi questa domanda: che stile di vita proponiamo noi? Come famiglia, come persone, come gruppo?

    Martini aveva detto un’altra frase, ai tempi della Farsi Prossimo: aveva detto molto chiaramente “La carità non è un dovere morale, è uno stile di vita; bisogna aiutare il Rwanda senza andarci”. Perché è qui che devi cambiare il mondo!

    Claudio: Secondo te, il tuo stile di vita è replicabile oggi, per una giovane famiglia?

    Bruno: Il nostro non lo so. Ma un’altra riflessione fatta con Martini era che nei nostri anni arrivava gente ‘già sperimentata’, oggi invece arriva gente ‘vergine’, e lui diceva: “Se la tua associazione non fa questo lavoro di dare occasione alle famiglie di oggi, di fare esperienza, allora cosa fa? Non dovranno andare mica tutti in Rwanda, per capire.” E mi pare giusto! L’associazione deve capire che è questa cultura, questo lavoro culturale, che stiamo facendo: il compito di Mcf è questo qui. Ci vuole un lavoro culturale ampio, e la comunità è una conseguenza di quel lavoro.

    L’Enrica dice sempre che io esagero, ma io esagero anche per farmi capire. Ognuno fa quello che deve fare; io metto la faccia, anche se dico delle cavolate.

    Nel 2015 ho partecipato alla ‘piazzetta delle famiglie nuove’ durante l’agorà e ho sentito i desideri, i sogni e le motivazioni, che sono sempre quelli: ad esempio la difficoltà del lavoro, perché ti assorbe tutto, invece tu vorresti avere più tempo per la famiglia, oppure da solo non riesci a fare niente, allora hai bisogno del gruppo. Mi sembrano motivazioni molto simili a quelle di sempre ed è anche giusto così, perché l’uomo è così. Mi è piaciuto che sono famiglie giovani, con dentro un po’ di tutto.

    Valter: Proviamo ad entrare nel tema della famiglia, che volevamo trattare oggi. Enrica, perché tu hai detto “Dovremmo parlare della famiglia adesso al Papa”, tu l’hai detto, io l’ho sentito: cos’è che avevi in mente?

    Enrica: Ne avevamo parlato tra di noi: e se dovessimo incontrare il Papa, cosa gli diremmo?

    Bruno: Io personalmente, è quello che ho detto a Martini e ho scritto a Tettamanzi (Monsignor Dionigi Tettamanzi, ndr), vorrei dirgli che quello che dice Papa Francesco entusiasma, porca miseria! Nell’enciclica, negli ultimi discorsi, parla molto delle ‘prossimità familiari’. Mi piace che non la chiama “comunità”, ma “prossimità famigliare” …va’ che è bello! Sono necessarie le prossimità familiari: un’associazione come la nostra c’è per questo, per ‘il come’, ad esempio per provocare chi ha un convento, dei grandi spazi: è stato così per Cerro Maggiore, per Bergamo, per Castello Cabiaglio e anche Castellazzo di Basiano è nato così.

    Ecco perché dobbiamo avere un ideale alto, dobbiamo appassionare le famiglie e chi ha le risorse. Se Martini oggi mi dicesse “Tu cosa dici di te?”, risponderei che “Tutta la vita ho cercato di attivare quelle parole o quei concetti che lui, il Cardinale, cercava di comunicare con le sue prediche”.

    Perché la parola fiducia oggi non esiste più, la stretta di mano non ha più valore, la responsabilità personale si cerca di evitarla, si delega; ecco, forse sono queste le cose più disattivate o disattese. Certo, ce ne vorrebbe di più di gente che si occupa anche di bambini abbandonati, ma noi dobbiamo capire che quello che facciamo è uno strumento: l’accoglienza è uno strumento per insegnare a pensare a una famiglia nuova.

    Enrica: Bisognerebbe solo dire quello che vivere in comunità è stato per ciascuno: è quello che poi fa venire voglia a qualcuno, forse, di provarci. Per me certamente non è stata una cosa così, all’acqua di rose, però se dovessi ricominciare io rifarei tutto. A partire dagli inizi, che non sapevamo dove andavamo a finire, cosa eravamo lì a fare a Villapizzone. Eravamo lì, ma non sapevamo cosa saremmo diventati, noi e questi Gesuiti…

    Pian piano è venuto fuori. Uno chiedeva uno spazio, chiedeva di essere ospitato, il posto c’era, non potevi dire di no. È stata così, una cosa molto semplice. Piano piano ho imparato a essere accogliente, a non irrigidirmi troppo quando qualcuno si presentava, perché ho visto che comunque non ero sola, avevo l’aiuto del Bruno, ma anche l’aiuto di altri, di altre famiglie che si sono aggiunte.

    Mi ricordo per esempio uno dei Gesuiti che mi diceva di prendere alla mattina un bicchierino di me ne frego”. Oppure Filippo (padre gesuita ndr) che diceva, rispetto ai nostri figli, con i quali non era sempre facile perché c’erano anche i figli “aggiunti”, “Lasciateli vivere! Guardate che a tirare l’erba, non cresce più in fretta, si rompe! State tranquilli”. Ecco, il fatto di avere queste persone assieme a noi mi ha aiutato tantissimo.

    Oppure Filippo, ancora, che diceva “Acquista la pace interiore, e migliaia intorno a te troveranno salvezza. Ma sta’ in pace te, sta’ calma” e lui, il Bruno, che per tutta una vita mi ha ripetuto “Ma che te ne frega!? Lascia perdere. Ti fa star bene quello che dici? Se non ti fa star bene, lascia perdere…”. A furia di sentirmelo dire, qualcosina ho imparato anch’io. E poi dopo capisci, un po’ alla volta, che hai una libertà incredibile. Nonostante la famiglia piena, io credo di essere stata più libera, anche di prendere su e piantarli tutti, più di quello che può fare mia figlia, che vive in un appartamento con la sua famiglia.

    Bruno: Quello che adesso stai dicendo mi fa venire in mente che abbiamo capito finalmente che la famiglia non è figlio-centrica, ma coppia-centrica (oggi invece la famiglia è centrata su un povero tapino). Però il nostro rischio era quello di diventare degli operatori sociali, avevamo tanta gente in casa, bisognava far marciare la casa, e una volta uno dei ragazzini, Massimo, che era un sacripante di uno, mentre stavo tentando di fargli fare i compiti, mi dice “Te, cosa vuoi da me? Non sei neanche mio padre”, al che gli ho chiesto “Allora, cosa devo fare?” e lui mi dice “Guarda tua moglie!”.

    Enrica: Lui voleva che ci scaricassimo, che non fossimo così addosso a lui, che ci guardassimo noi due. Ci ha aiutati a recuperare tra noi.

    Bruno: Ci ha buttato nelle braccia l’uno dell’altra, quando rischiavamo di perderci noi. Lui che era frutto di un amore che non aveva funzionato, voleva vedere l’amore, mica uno che gli faceva fare i compiti! Di fatto noi avevamo anche avuto la fortuna dell’apertura verso obiettori, volontari, non solo verso una persona bisognosa di fare i compiti, ma anche persone che gestivano una ricerca loro, persone in ricerca. Anche loro erano una risorsa per la nostra famiglia.

    Enrica: Sì, era importante che i figli sapessero che noi eravamo la loro famiglia e che poi c’erano le altre famiglie vicino a noi; per noi questo è stato impagabile, per quelli che avevamo in affido, ma anche per i nostri figli diventati adolescenti: se c’era qualcosa, non sentivano il bisogno di andare fuori a cercare, c’erano le altre famiglie, grandi e ragazzi.

    C’era la Danila che quando capiva che c’era qualcosa nell’aria che non andava, allora magari invitava il figlio di un’altra famiglia a bersi qualcosa, a far merenda, li invitava a cena, poi andavano a dormire.

    Noi siamo stati veramente fortunati, in quegli anni. Il gioco di squadra ha funzionato veramente. Per loro, ma anche per noi.

    In comunità io, nonostante i miei limiti (ne ho un sacco: paure, l’essere restia a parlare, a espormi…), mi sono sentita molto capita e perdonata, dai compagni di strada, di comunità. Impari proprio il valore del perdono, giorno per giorno.

    Bruno: Noi quando eravamo insieme a Padre Barbieri, eravamo già una famiglia bella grande, ogni tanto io e l’Enrica dicevamo “Se arrivasse un prete?”, in famiglia, così almeno un po’ di cose se le prende lui! Ne sono arrivati sei, sei gesuiti. Più diversi di così?! Allora capisci perché io difendo la diversità, il cancello aperto: è aperto a tutti, a tutti quelli che hanno voglia di camminare però!

    Enrica: È significativo anche perché lo Spirito Santo ci ha mandato prima di un’altra famiglia i sei gesuiti: di modo che noi, andando tutti lì a vivere a Villa, non ci siamo messi tutti insieme. La casa era grande, magari distrutta, ci siamo messi in buchi dove si poteva vivere, però noi da una parte e loro dall’altra. E allora quando sono arrivati i Nicolai, anche loro si sono messi accanto. Mentre in quel periodo ne nascevano parecchie di comunità, ma tutti insieme, e poi dopo…

    Valter: Quindi tu dici, c’è stata un’intuizione, ma dello Spirito Santo, più che vostra, più che un progetto pensato.

    Bruno: Quando eravamo con Padre Barbieri, prima di prendere con noi qualche bambino piccolo, avevamo avuto della gente adulta, che tornava dall’Africa, dal Terzo Mondo, delusi, perché non erano riusciti a fare la rivoluzione, oppure quelli che non riuscivano a partire.

    Poi è subentrata la provvidenza: è arrivata un’assistente sociale che diceva “A me piacerebbe stare con voi, perché sono anch’io un po’ come voi, ma faccio l’assistente sociale e ho qui una bambina che secondo me starebbe bene con voi”. E così abbiamo scoperto il sociale, siamo mica andati a cercarlo.

    Chi arrivava da noi ce l’aveva con la Chiesa, con lo Stato, con la famiglia, con il lavoro e invece sono venuti in un posto dove c’erano sei gesuiti, dove c’era la famiglia, il lavoro, perché per mangiare bisogna andare a lavorare.

    La presenza dei gesuiti è stata determinante! Determinante già nel modo in cui sono arrivati: han capito che non dovevano essere loro i capi. Quando è arrivato qualche altro gesuita che ha tentato di mettere le mani sulla comunità, loro gliele hanno ‘tagliate’ subito, perché dicevano che non era affare loro: la loro comunità è quella di gesuiti, la comunità con le famiglie è altra cosa. Filippo parlava anche di comunità di comunità, cioè ogni singola famiglia è in sé comunità, e poi c’è una famiglia più ampia di famiglie: una comunità di famiglie, ma ognuno ha la sua famiglia.

    La modalità era quella familiare: non quella democratica, coi voti. Famiglia è dove si ascolta tutti e poi i genitori prendono una decisione. Questo mi pare che, come metodo di gestione della comunità, non dobbiamo dimenticarlo, perché noi siamo famiglie. E non seguiamo un modello democratico. Ci sta bene ascoltare i nostri figli, che siano in grado di dire qualche cosa, e poi ne teniamo conto nelle decisioni che prendiamo: però la responsabilità è nostra. È così anche nella comunità: tutti possono esprimersi, ma chi ha preso una responsabilità deve decidere. Invece molte volte noi vogliamo il consenso di tutti. Sarebbe diverso se al posto di essere famiglie fossimo dei singoli: è più facile il governo di una comunità di singoli. Ma per noi famiglie, se per me va bene e per lei no? Non posso delegare la comunità a prendere una decisione per me-famiglia.

    Enrica: Io ho capito che se voglio vivere le fatiche ci sono; tante volte mi veniva in mente la parola sacrificio: sacrificata a stare in casa, ad esempio, però col tempo, e aiutandoci, ho capito che invece di vedere la parola in negativo potevo vederla in positivo: fare sacro…ecco, e allora vivi più in pace.

    Bruno: Allora capisci che rispondi anche alla parola alternativo, alternativo vuol dire che tu puoi sempre fare in un altro modo, hai sempre la via d’uscita.

    Io cosa ho imparato come uomo, ma anche come marito e come papà di una banda? Perché poi anche i miei figli non li ho fatti io e quindi ho dovuto imparare con tutti a diventare papà, un po’ alla volta, perché io non li ho portati in pancia, e così anche con gli altri ho dovuto imparare; e non è stato facile imparare a fare il papà guardando alla mia famiglia d’origine, dove mio padre diceva “Bisogna cantà e purtà la crus”, non potevi nemmeno lamentarti! Ho dovuto imparare anche a scaricarmi però, a non pensare che sono io a salvare il mondo, l’ha già salvato qualcuno, non tocca mica a me!

    Enrica: Mi viene in mente Gesù sulla croce, se Dio non è intervenuto lì…

    Bruno: Mi viene in mente tua sorella: suo marito ha avuto il morbo di Parkinson dai 40 anni, ed è morto adesso, e lei l’ha assistito in tutto. Una volta andava a messa, correva, e una sua amica la vede correre e le chiede “Dove vai?” e lei “Eh vado a pregare, a messa”; poi la incontra anche nel tornare indietro e le chiede “Allora, ti ha ascoltato?”, e lei “No, perché ha detto che neppure lui ha potuto far niente per il figlio in croce”.

    C’era un giovane, alcolista, lo chiamavamo ‘Francoforte’, che mi aveva scelto come padre: è venuto da noi che aveva 18 anni, proprio mi è entrato sotto la pelle, mi si è intrufolato dentro. Era grande, come un bestione, lo chiamavamo Francoforte per quello, con un fiato d’alcool grosso così; lui chiedeva aiuto, io non sapevo più che fare per aiutarlo, l’ho portato ai gruppi di alcoolisti, su all’ospedale di Auronzo, dove c’era un reparto di alcoologia, perché non c’erano reparti qui da noi: è saltato giù dal reparto al terzo piano, non si è nemmeno ammazzato, si è spellato tutto, perché è finito su una tettoia e quelli l’hanno preso e messo su un’ambulanza, gli hanno chiesto dove voleva andare e si è fatto portare al Sacco, cioè vicino a Villapizzone, così poi era ancora da noi, ma ad un certo punto io gli ho detto di andare, che non ce la facevo più. Ma avevo anche capito, pensando al ‘santo bevitore’ del film che ‘Vanno in paradiso anche gli ubriachi e che non siamo mica venuti sulla terra per andare lì?’ E lì ho cominciato a pensare che andava bene anche così…E lui ha smesso di bere, aveva incontrato una ragazza, e adesso è trent’anni che non beve più.

    È possibile per un papà che veglia il figlio che si sta ammazzando con una droga o altro e il papà vorrebbe trattenerlo e lui non ti dà la mano? C’è qualcosa di più tremendo, ma anche più di divino…voler bene a uno che si fa del male?

    Questo mi ha fatto riflettere tante volte: come fai ad amare un ubriaco? Come fai? Eppure, bisogna amarlo per quello che è.

    Enrica: Appunto, e anche se non si sta rovinando, ma fa di tutto per non farsi voler bene e fai fatica a volergli bene. Ti rendi conto di come sei duro te, che hai il cuore di pietra…In quei momenti lì ti viene proprio il bisogno di Dio: perché da sola non ce la fai.

    Anche questo è un cammino che il vivere in comunità mi ha fatto fare.

    Bruno: Le nostre tre parole ‘mondo, comunità e famiglia’, sono tre parole chiave: il mondo è questo, non ce n’è un altro, dobbiamo imparare ad amare il mondo perché Gesù Cristo ha amato il mondo, imparare a stare al mondo. Stare al mondo con dignità.

    Stare al mondo non da soli: comunità. Quale comunità è possibile tra le famiglie? Una prossimità familiare’, che bello! Perché la familiarità è l’amore possibile, tra noi e voi: non possiamo immaginare chissà che cosa, ma l’amore possibile tra famiglie così, tra figli tuoi e figli aggiunti. Qual è l’amore possibile? Non veniamo qua a raccontar balle che tutto si può amare, che tutto è uguale: anche tra figli naturali, c’è uno che è più amato, che è più figlio degli altri. Ecco allora, stare al mondo insieme, valorizzando la famiglia, quella possibile. Mi piace questo Papa, che enfatizza sulla famiglia e non parla di altri modelli di famiglia: noi dobbiamo vendere il nostro prodotto, non combattere il prodotto dell’altro. Capisci cosa voglio dire? Perdiamo troppo tempo a parlare degli omosessuali che vogliono far famiglia, ma che facciano famiglia finché vogliono. Noi dobbiamo far vedere che il nostro modello di famiglia ha ancora un senso. Ecco, insieme si può, in quel modo lì: non da soli, ma valorizzando l’essenza della famiglia, che è la familiarità. Se dovessi spiegare cos’è l’essenza della famiglia.

    Nella famiglia di mia mamma c’era un fratello che non era un fratello, era ‘un famei’, un ‘famiglio’, ‘il barba’, nella bergamasca lo chiamavano ‘el barba’, una persona estranea, che però per vari motivi era arrivato a vivere in quella famiglia lì, e c’era una familiarità con lui, come uno zio, acquisito.

    Familiarità: io non sono capace di spiegarlo, ma mi viene sempre in mente che quando sono in giro, l’Enrica che è a casa pensa a me! Io so che c’è qualcuno, lontano, che pensa a me. Pensa ai bambini abbandonati, che nessuno li pensa, quanto ci ha aiutato il fatto di avere in casa qualcuno…

    Elena: Avevo un biglietto con scritto: ‘Tutti i bambini dimenticati hanno lo stesso sogno: dormono, dormono, dormono, e… lo stesso sogno è avere la famiglia’, son tutti soli e tutti sognano la mamma e il papà.

    Sono rimasta molto colpita da quello che ha detto una volta Massimo (Nicolai ndr), durante l’Agorà: “Quello che importa non è la qualità del tempo, ma la quantità”.

    Bruno: Quello che avviene oggi non va bene: nella comunità ormai è stato importato un sistema, un condizionamento, coi bambini e i genitori che fanno i taxisti dappertutto; tanti di questi bambini sono sommersi da centomila cose, il nuoto, la danza, lo sport, il catechismo… State un po’ insieme a loro!

    Il mio era un altro modo di lavorare, un altro modo di stare nel tempo, perché avevo tempo di stare a casa mia: di fare le cose, tagliare la legna, pitturare… Per vivere come vivevamo noi a Villapizzone, semplicemente e in sobrietà, era sufficiente il metà tempo: lavorare fuori metà tempo, ma non è che poi nell’altra metà non fai più niente: metà tempo era per produrre quei soldi che ci volevano e l’altra metà per produrre comunità che poi produce anche economia alternativa. Su questo bisogna parlare!

    Enrica: È anche buono che ci sia un tempo per la famiglia. La famiglia però deve essere aperta: gli altri devono sapere che comunque tu ci sei in qualsiasi momento, anche per loro.