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Abitare condiviso, racconto di una via possibile

    Questo testo è tratto da un articolo di Enrico Grillo pubblicato sul numero di “Rassegna di Architettura e Urbanistica” 174/2024 n. 174: Laudato si′. Prospettive per un′architettura integrale (a cura di Maria Argenti e José Tolentino de Mendonça).

    Solitamente di architettura e di condomini raramente scrivono gli abitanti. Quello che segue è invece un diario «dal campo», il racconto in prima persona di un’esperienza comunitaria che indirettamente è anche architettonica, nel senso che ha qualcosa da dire a chi progetta e a chi commissiona i luoghi di incontro, gli spazi dello svolgersi delle nostre vite.

    «Se vuoi andare veloce, vai da solo, se vuoi andare lontano, vai con altri». Questo proverbio indiano accompagna da anni sia il mio personale modo di intendere la professione di ingegnere, sia il percorso di vita comunitaria scelto con la mia famiglia. Direi che ne è anzi il movente principale: un patto di mutuo aiuto, scaturito dalla volontà di non restare soli ad affrontare le sfide del mondo e provare a cercare insieme la felicità. È nata su queste basi, nel 2010, la Collina del Barbagianni – una comunità di famiglie o condominio solidale a seconda dell’ottica con cui la si vuole vedere – nella periferia di Roma, in zona Bufalotta, a margine tra la città e la campagna.

    Il contesto è quello di una ex azienda agricola, sviluppatasi intorno al 1930 nei pressi di un antico casale di origine medievale, nella descrizione storica di Lorenzo Quilici e Stefania Quilici Gigli. Dalle ricerche documentali effettuate è emerso che il fondo denominato Casal Boccone è menzionato tra i possedimenti del monastero della Basilica di San Lorenzo fuori le Mura. Inoltre, nella carta di Eufrosino della Volpaia del 1549, nota come Il Paese di Roma, il casale viene raffigurato come un notevole complesso, articolato in più unità organizzate attorno a una grande torre.

    Agli inizi del secolo scorso il casale era l’unica emergenza architettonica in quest’area di campagna romana. Attorno ad esso si era poi sviluppata un’azienda agricola che già dagli anni Settanta aveva cessato di funzionare. Negli anni Duemila la proprietà è stata acquistata dalla congregazione religiosa delle Maestre Pie Venerini, che oggi ha nel casale la sua sede provinciale. Diversi stabili, dopo aver perso la specifica agricola, sono passati al catasto fabbricati: la grande stalla, la casa del fattore, il granaio, il gallinaio/porcilaia, il fienile, un vecchio forno, una lavanderia e due piccoli fabbricati residenziali. In alcuni di essi – avuti in comodato d’uso – dal 2010 un gruppo di famiglie, fra cui la mia, affronta la sfida di una vita condivisa, riqualificando gli stabili e ricavandone piccoli appartamenti e spazi comuni.

    Cinque nuclei familiari nell’insieme con dieci figli; due cani, tanti gatti, una decina di galline e vari cinghiali in visita, orti e altri luoghi condivisi. La ricchezza è tanta: Dario porta a casa le sue interviste, Enrico la sensibilità verso gli obiettivi ONU e quelli della Laudato si’, Marta la passione per l’accoglienza e la pittura, Giuseppe i percorsi da formatore. E ancora: Marina è neuropsichiatra infantile, Paola ha lo sguardo sulla bellezza da storica dell’arte, Andrea l’esperienza di ingegnere, Beatrice la grande manualità e l’attenzione ai giovani, Carlo la sua concretezza.

    Tutti noi abbiamo scelto questa modalità di vita grazie all’incontro, avvenuto nel 2005, con Bruno ed Enrica Volpi che, con i coniugi Nicolai e alcuni gesuiti, hanno avviato nel 1978 l’esperienza di Villapizzone a Milano. Da quell’inizio sono nati a seguire 35 condomini solidali, molti gruppi di condivisione e delle «cordate» di lavoro, tenute in rete dall’associazione, laica e aconfessionale, Mondo di Comunità e Famiglia (MCF).

    Motore ed essenza di questa associazione è la convinzione che le persone e le famiglie, scegliendo di abbandonare il paradigma della diffidenza, di fidarsi reciprocamente, di valorizzare le diversità, possono camminare insieme verso la realizzazione della propria vocazione di vita; e arrivare al contempo a creare un altro modo di abitare, radicalmente diverso dall’anonimato dei condomini che popolano le grandi città. Questo cammino si fonda sulla pratica quotidiana tesa alla fiducia, accoglienza, apertura, condivisione, sobrietà, solidarietà, responsabilità, sostenibilità e accompagnamento reciproco. Centrale è stata la rilettura dei vissuti e dei documenti che nei primi trent’anni (dall’esempio di Villapizzone) sono stati scritti sia dai diversi gruppi, sia da tutte le persone che hanno cercato di capire e descrivere la vita dal di dentro. La rilettura e la rielaborazione di questo materiale hanno permesso di individuare alcune «buone pratiche».

    1) Con la porta aperta. Un desiderio di aprirsi alla fiducia, escludendo qualunque «test di ammissione»: il cancello e le porte lasciati aperti senza orari, la disponibilità permanente all’ascolto di chiunque si rivolge alla comunità e insieme la scelta di non essere troppo condizionati dal rispetto di programmi precedentemente stabiliti.

    2) Il «metodo della condivisione»: un equilibrio fra parola e silenzio. Lo spazio-tempo che ci si regala nella comunità, il poter condividere la narrazione del proprio vissuto in un clima di ascolto e di confidenzialità è un metodo che cementa le relazioni fra i componenti perché permette una comunicazione profonda e rispettosa degli altri anche in momenti e situazioni difficili.

    3) Accoglienza in famiglia e tra famiglie. L’accettazione è da sempre un pilastro fondante di queste esperienze di abitare condiviso. Una famiglia ne accoglie un’altra e si avvia così la nascita di una comunità. Nella pratica abbiamo constatato che dapprima l’accoglienza la si offre: vale a dire, si sente l’esigenza e la capacità di aprirsi, poi la si cerca. Si scopre che quanto entra in gioco non è solo una disponibilità ospitale unidirezionale, quanto il desiderio reciproco di una relazione accogliente. E in essa della costruzione di un ambiente ospitale. Tutto questo interroga nel profondo anche l’architettura degli spazi e mette in movimento un circuito virtuoso di luoghi in cui – una volta accettato dagli altri – è possibile accogliere anche se stessi. Luoghi vissuti che segnano il cammino di una comunità. Nell’esperienza di MCF la soluzione condivisa risiede nel mantenere spazi riservati per i singoli nuclei familiari, accanto ad ambienti compartecipati. Una buona pratica è rappresentata dal cercare di avere appartamenti su più livelli, con il piano terra permeabile all’incontro, alle visite delle persone, a chi bussa per chiedere qualcosa o per dialogare, mentre la parte superiore può essere più riservata, dedicata all’area «notte». L’uso di scale condivise facilita altresì l’incontro, che a volte può non essere scontato, anche in un siffatto approccio di vita. Nella «nostra» Collina del Barbagianni, la conformazione degli edifici non ci ha permesso di seguire le preziose indicazioni di tanti altri che avevano già intrapreso questo percorso; siamo riusciti però ad avere un piccolo appartamento per ogni famiglia, più o meno sempre di quattro vani: ingresso-soggiorno-cucina, camera dei genitori, camera dei figli, servizio. Tutti affacciati sull’aia centrale, luogo di incontro e di ritrovo.

    4) Convivialità: il tempo della relazione quotidiana. La nostra vita comunitaria è basata su tempi e luoghi dedicati ogni giorno alla relazione. Per quanto riguarda i primi la condivisione è quotidianamente alimentata da occasioni di incontro, ascolto e sostegno reciproci. Si tratta di un tempo «straordinario-ordinario quotidiano» necessario a valorizzare le nostre normali interazioni, ma anche a crearle quando non nascono spontaneamente. I pasti in comune sono sempre un’opportunità di scambio e confronto. E questo ci porta a parlare dei luoghi in cui tali incontri avvengono, di come sono, di come avrebbero potuto essere, di come sono arrivati a noi, di come li abbiamo trasformati e di come potrebbero ancora trasformarsi, della memoria che le loro mura conservano riguardo a un passato che non è più e del modo in cui gli spazi sono ora organizzati. In ogni contesto sociale, e ancora di più in un contesto specificatamente comunitario, c’è sempre bisogno di una gestione continua degli spazi che preservi l’intimità, la pausa e la riservatezza (dei singoli individui e dei singoli nuclei), ma al contempo anche di luoghi pensati per permettere e facilitare l’incontro, la relazione, il dialogo. La nostra comunità di famiglie ha la fortuna di abitare al margine tra la città e la campagna, tra le strade, gli edifici e i campi coltivati, la natura verdeggiante in cui potersi perdere: il rumore del grande raccordo anulare ci ricorda che siamo al limitare di un centro urbano, ma quello del trattore nei campi e dei versi degli animali (usignoli, fagiani, civette, picchi) ci rammenta che siamo anche altrove. L’area esterna che abbiamo a disposizione è ampia e variegata, ma il centro «spirituale» della Collina è l’aia, spazio baricentrico attorno al quale sono posizionati i diversi edifici, crocevia di percorsi e prima accoglienza per chi arriva. E al centro dell’aia c’è poi il punto focale, una piccola area circolare che abbiamo ereditato dall’esperienza scout fatta da molti di noi, ma che ha un richiamo ancestrale, un legame con il passato remotissimo dell’uomo, rimasto per secoli nelle usanze – per necessità e per celebrazione – di molti popoli. Un luogo simbolico.

    5) La «cassa comune» e l’economia di una collettività. «Non confido sui denari che accumulo, ma sulla rete di relazioni che costruisco. Non consumo in base a quanto guadagno, ma consumo ciò di cui ho bisogno in sobrietà e produco quanto riesco con responsabilità. La mia felicità e sicurezza non sono proporzionali a quanto guadagno e a quanto consumo».

    Nell’esperienza di MCF la cassa comune consiste in un unico conto di tutte le famiglie nel quale si deposita quanto si guadagna e dal quale si prende ciò di cui si ha bisogno in uno stile di sobrietà e responsabilità. Abbiamo adottato queste buone pratiche in libertà, come spunto e stimolo, radice e frutto, non come un obbligo subito e nemmeno come un «dover essere» individualmente auspicato, ma come il raccolto di un campo arato e coltivato, un semplice mettersi a disposizione degli altri, una buona forma per aiutarsi e incoraggiarsi reciprocamente nel cammino, ma anche un percorso «aperto», perché strada facendo ognuno può e deve contribuire a precisare elementi, aggiornare con la propria esperienza, trovare vie coerenti per situazioni nuove. La nostra esperienza di vita comunitaria non è nata con lo scopo specifico di accogliere persone o famiglie in difficoltà, né con una prestabilita finalità sociale: ci siamo incontrati ognuno nella propria ricerca di altre persone e famiglie desiderose di mettersi in gioco, in rete, con l’obiettivo di percorrere insieme la strada che avevamo davanti. E questo è stato generativo, ci ha resi disponibili a prenderci cura non solo dei nostri figli, ma anche di altre persone incontrate e, ovviamente, anche dei luoghi.

    Da quando siamo arrivati, attraverso un lavoro condiviso con tanti amici e imprese edili, abbiamo ristrutturato gli edifici avuti in comodato d’uso ricavandone gli appartamenti per ogni famiglia. È stato naturale farlo, come ogni famiglia fa. Ed è un’attività che è continuata nel tempo, recuperando altre aree e cambiandone l’uso a seconda del variare delle necessità. Diversi spazi comuni sono stati pensati dapprima come di incontro tra noi abitanti, ma ben presto – e sempre più con lo scorrere del tempo – sono divenuti ambiti di accoglienza destinati a diverse persone. Per gli incontri comunitari al coperto si è pensato di utilizzare il vecchio granaio. La sua multifunzionalità ci permette ora di farne un luogo di ritrovo per le riunioni e le cene invernali, ma anche – grazie a una parete mobile interna autocostruita – di utilizzarlo come stanza per il laboratorio del Closlieu (gioco della pittura), nonché all’occorrenza come una molto sobria stanza di prima accoglienza nell’«emergenza». Anche un altro spazio, la «stanza del vento» (denominazione ereditata da una scritta lì presente) – dotandolo di un piccolo servizio e due stanze – è stato a lungo conteso tra l’uso comunitario e la destinazione all’accoglienza per periodi più o meno lunghi. È interessante notare come il vivere condiviso scardini naturalmente le usuali rigidità e chiusure nello spazio mono-familiare, obbligando tutti a un pensiero dinamico che trasforma ogni luogo in qualcosa che si rinnova sempre, quasi mai a «fatica zero», e mai a somma zero; ma sempre meravigliosamente ricco di relazioni, vita: non facile, ma felice!

    Il fienile, invece, aveva una copertura danneggiata che lo rendeva inutilizzabile: abbiamo lavorato a lungo insieme per ripristinarne la funzionalità e ora è spazio di stoccaggio di materiali e attrezzature, falegnameria. Ma è anche luogo di lavoro per Versi di Legno, attività di recupero e riciclo creativo che porto avanti da anni, nella visione di dare nuova vita agli scarti, di recuperare ciò che è abbandonato e che – solo apparentemente – non ha più valore.

    Sono ormai quattordici anni che abbiamo intrecciato i nostri percorsi in questi luoghi, che abbiamo contribuito a cambiare; provando a darci sostegno reciproco nella costruzione familiare e personale, architettonica e relazionale di un ambiente sereno, che si esprime in una ricerca della felicità costruita attraverso un patto di mutuo aiuto. La prima accoglienza si esprime nella difesa dei progetti di ciascun componente, incoraggiandoli anche se non li si condivide. Dentro questa relazione c’è un fermento, un processo, una dinamica non sempre facile; che porta anche alla condivisione delle fatiche e del dolore, ma crea bellezza, uno sviluppo visibile di bene. È importante salvaguardare le scelte di ogni famiglia, senza forzature. Importante ma difficile è il supporto-aiuto perché ciascuno capisca il proprio limite e le proprie risorse. Anche la continua progettazione degli spazi è madre e figlia allo stesso tempo di questa dinamica. Dalle buone pratiche condivise e dalle analoghe esperienze di altri abbiamo capito l’importanza dell’accoglienza in famiglia, la sua forza maggiore rispetto a quella in comunità, dove tutti sono disponibili ma nessuno in modo specifico e diretto. I riferimenti di altri vissuti ci hanno spronato a individuare spazi ampi, permeabili all’incontro, continuando a sognare quelli più adeguati, e a lavorare per rendere i nostri ambienti di vita flessibili, multifunzionali, creativi. È questo che ci ha portato a offrire la prima accoglienza negli spazi comuni, cercando di dare supporto a chi lo cercava. Lo abbiamo fatto senza la presunzione di esserne fino in fondo capaci e abbiamo imparato dagli errori vissuti.

    E insieme scoperto l’importanza di offrire non solo uno spazio, ma anche un tempo di condivisione quotidiana. È difficile misurare tutto ciò, farne un bilancio; e forse non ha nemmeno senso valutarne l’efficacia; il risultato può essere molto soddisfacente quando si vedono le persone rinascere, ma anche frustrante e scoraggiante quando si affrontano insuccessi e si assiste a partenze inattese. Ci sono ospitalità che sono durate pochi giorni e altre invece anni; individui arrivati per stare poco sono rimasti a lungo e altri stanno ancora in Collina; famiglie intere per le quali avevamo individuato percorsi di inserimento nel contesto sociale sono invece partite; ragazze e ragazzi hanno portato mondi culturali, sociali e residenziali molto diversi dai nostri.

    Uno dei primi ad arrivare è stato Moussa la cui storia è stata per noi una continua meraviglia: partito dall’Africa è arrivato in Collina due anni dopo l’avvio dell’esperienza comunitaria; pur vivendo in un piccolo monolocale è stato accolto in una delle famiglie. È arrivato dopo aver attraversato Paesi, deserti, mare: dopo un primo periodo di adattamento al posto e alle persone, ha mostrato un’incredibile voglia di vivere, di darsi da fare, di rendersi utile; ha lavorato e ha studiato, conseguito un diploma, preso la patente di guida e adesso è stato assunto a tempo indeterminato presso una grande società: il prossimo obiettivo è la cittadinanza italiana. Moussa vive ancora con noi, ma con la prospettiva di poter ormai camminare in autonomia: sta valutando l’acquisto di una propria casa! E dopo di lui molte altre persone sono passate e diverse ci sono tuttora.

    Nei primi anni non tutti gli spazi erano pronti per l’uso. È stata una sfida coinvolgere tutti, nei sabati di lavoro condiviso, per riqualificare sia gli esterni, sia gli interni: spazi comuni, magazzini, area parcheggio, aia centrale, orti, forno e stufa in terra cruda. E anche piantare nuovi alberi per accentuare l’ambiente naturale e per contrastare il fenomeno urbano di isola di calore nella stagione estiva dell’ampia aia assolata. Abbiamo lavorato tutti: adulti e laddove possibile anche bambini, in un’esperienza di conoscenza molto diretta degli spazi, dei materiali, come in un rapporto di «addomesticamento» reciproco… il luogo aveva (e ancora ha) molto da dire e noi volevamo metterci in ascolto. Costruire insieme rende gli spazi diversi nel rapporto con chi li abita.

    Venivamo tutti da altre zone di Roma e abbiamo avuto bisogno di tempo per entrare in sintonia con un contesto diverso, con gli spazi chiusi, con i panorami aperti, con i venti, con gli eventi atmosferici locali. Con noi stessi che nel frattempo cambiavamo mettendo in discussione il nostro stile di vita. Da subito abbiamo organizzato incontri di autorecupero e autocostruzione, corsi di permacultura, mettendo in atto sperimentazioni con diversi materiali, tra cui anche quelli che permettevano la partecipazione e il gioco dei più piccoli, ad esempio usando terra cruda e paglia.

    Avevamo da poco volutamente lasciato appartamenti protetti da porte blindate e grate alle finestre, all’interno di palazzine anonime in contesti urbanizzati per provare ad affidare la nostra protezione alla comunità, al nostro stare insieme, mossi da fiducia reciproca e mutuo aiuto. Cercando di ridurre il numero di chiavi, provando a «Vivere con la porta aperta», optando per un cancello da chiudere solo la notte. Gli spazi si sono in effetti poi riempiti per le accoglienze, molto varie e per ospitare le diverse attività nate nel tempo.

    Nel 2013 è nato il Coro della Collina: cinquanta elementi, con repertorio di canti popolari italiani e stranieri. Per alcuni anni il coro è stato ospitato in uno spazio messo a disposizione dalla congregazione religiosa. Successivamente, dopo il periodo di confinamento dovuto alla pandemia, il numero di coristi è cresciuto e siamo ora in uno spazio del Municipio. Poi sono nati gli orti condivisi, spazi da coltivare nella quotidianità. Quindi una coppia di apicultori del quartiere ha cominciato a prendersi cura di un apiario che conta ora una decina di arnie. Infine, sono nate le serate aperte di incontro. E alcune attività di volontariato, come le Hamburgherie a sostegno delle missioni in America Latina dell’Operazione Mato Grosso, centri estivi, riparo e respiro per gruppi scout. Sono nati i laboratori come il Closlieu e Versi di Legno. Negli anni, abbiamo cominciato ad entrare in rete con le altre realtà del territorio e a partecipare al piano regolatore sociale del III Municipio di Roma, nonché a relazionarci con le parrocchie di San Ponziano e Santa Maria Maddalena de’ Pazzi e la Caritas di Roma, in questo modo sono nati progetti e iniziative di accoglienza.

    In quattordici anni sono venuti al mondo bambini e siamo tutti cresciuti. È stato ed è davvero arricchente vedere i nostri figli rapportarsi tra loro, con le tante persone in visita e accolte, nella bellezza dei rapporti orizzontali e intergenerazionali. Abbiamo sperimentato con meraviglia e gioia il senso di un altro proverbio africano: «Per educare un figlio, ci vuole un villaggio». «Quando lasci la porta aperta, passa un sacco di mondo», diceva uno di noi. In effetti così è stato, anno dopo anno in Collina è passato un bel po’ di mondo.

    La comunità non ci libera dalle fatiche, i malcontenti, ma aiuta forse a renderli più leggeri e ad affrontarli nel modo migliore. I luoghi non diventano perfetti, non lo sono mai, ma vivi. Si crea così una rete virtuosa che ci educa a portare con meno sforzo il limite dell’altro. E a provare a vivere più in simbiosi con il luogo. Abbiamo imparato a condividere le gioie e le fatiche. In un luogo che è per tutti casa. Abbiamo imparato ad avere un «pregiudizio positivo» verso ciò che la vita ci offre e verso coloro che ci fa incontrare. L’atteggiamento dell’essere accoglienti aiuta ad accettare l’imprevisto del quotidiano, l’evento «non desiderato», le cose «più brutte» e dolorose della vita.

    Accogliere è mettersi sulle spalle i pesi di tutti dimenticando un po’ i propri; è anche scegliere di non difendersi dagli altri, lasciare che condizionino la nostra vita. Non ci si sente mai pronti ad affrontare le sfide della vita, ma noi abbiamo sperimentato che insieme «si può». Si può sicuramente più di quello che si crederebbe di poter fare da soli. E abbiamo imparato anche che tutto questo crea luoghi belli e vivi, anche dove non sembrava possibile.

    Per concludere, mi torna alla mente la bellissima poesia di Paul Eluard:
    Non verremo alla mèta ad uno ad uno,
    Ma a due a due. Se ci conosceremo
    A due a due, noi ci conosceremo
    Tutti, noi ci ameremo tutti e i figli
    Un giorno rideranno
    Della leggenda nera dove un uomo
    Lacrima in solitudine.