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Fare comunità oggi, intervento di Ennio Ripamonti

    Condividiamo con voi un estratto della restituzione che Ennio Ripamonti, psicosociologo e formatore, ha fatto durante l’incontro a Villaginevri dell’1 / 2 febbraio, sollecitato dalle nostre riflessioni sui temi affrontati. Manteniamo quindi nello scritto le espressioni discorsive dell’intervento fatto in occasione dell’incontro.

    Dico delle cose che sono ovviamente le cose che ho sentito e che ho visto nella giornata di ieri e che mi hanno maggiormente incuriosito. Cose che sono risuonate, perché io non vivo la vostra esperienza. Sono un amico ma anche un fan (di MCF), nel senso che mi piace quello che state facendo e allo stesso tempo faccio un mestiere per cui sono costretto, anche piacevolmente, a seguire molti progetti, sociali, educativi, di volontariato, con enti pubblici, con associazioni, cooperative in giro un po’ per l’Italia, soprattutto il Centro Nord. Poi per lavoro insegno, quindi studio queste cose.
    Quindi le cose che sono state dette ieri in qualche misura mi risuonano per vari motivi e provo a commentare delle cose che ho sentito, partendo da questa: ad un certo punto qualcuno ieri faceva riferimento al libro “Un’alternativa possibile”…
    Mi è venuta in mente la differenza fra gli anni in cui è nata l’esperienza a Villa e oggi. Io l’ho conosciuta che avrò avuto vent’anni. Sono venuto a comprare un mobile che ho ancora a casa. I mobili erano lì a Villa, mi ricordo. C’era un capannone, era nel rustico. Ecco, questo è stato il mio primo contatto, facevo l’educatore a Quarto Oggiaro; quindi, capitava che passavo e quegli anni ce li ho presenti e stavo facendo una comparazione fra le parole che abbiamo utilizzato qui ancora oggi.
    Alcune sono parole che vengono usate e tuttora valgono perché per quello dicevo, persistenza. Ci sono alcune parole che sono persistenti, anche insistenti per certi versi: uno può dire “ma ancora questi?”

     

    Il mondo, nel frattempo, ovviamente cambia. Se li eravamo nell’ultima porzione del ventesimo secolo, oggi siamo nel primo quarto del ventunesimo secolo: le cose cambiano. Quindi ci sono delle cose che persistono e hanno una loro forza. Ci sono delle cose che invece che cambiano. E cito due cose, per partire, per fotografare il momento in cui siamo.
    Ho un amico americano che insegna psicologia di comunità a New York, David Chevis. Ogni tanto ci scriviamo e mi ha detto “Guarda, c’è questo libro, che è stato il libro più venduto negli Stati Uniti nell’ambito della psicologia, è stato tradotto anche in Italia:  si intitola “La generazione ansiosa”. É un best seller. E’ il primo studio serio sull’effetto dei social sulla psiche delle giovani generazioni. E lui fa una provocazione, questo autore si chiama Jonathan Haidt e descrive come cominciano a esserci dei disegni di legge anche in anche in giro per l’Europa. E dice: dobbiamo trattare i social come delle droghe. Cioè, come ci siamo comportati con l’alcol e il fumo, occorre fare delle leggi per proteggere i cittadini da questa dipendenza.
    Perché dico questo? Perché il fenomeno più imponente, secondo me oggi poco percepito, è la solitudine. In particolare, negli ultimi due anni sto studiando la solitudine.
    E vi do due dati, sono abbastanza poco conosciuti, proposti da Censis e Università di Pavia.  Secondo il Censis, il 55% degli italiani dichiara di soffrire frequentemente di solitudine. È un dato pazzesco. Di questo 55%, quasi il 30% sono giovani di 16, 18, 20 anni.
    Tendenzialmente l’idea che noi abbiamo della solitudine è legata all’anzianità, alla separazione; li hai la solitudine accompagnata all’isolamento, cioè l’isolamento è il dato oggettivo. Milano ha il record italiano di famiglie mono individuali, cioè il profilo demografico della città di Milano presenta Il 52% delle famiglie milanesi composte da una sola persona. É un fenomeno che non è mai accaduto nella storia dell’umanità. Non noi non abbiamo nessun precedente storico di cosa significa vivere in una società altamente, come lo chiamano i sociologi francesi, individualizzata; non individualista, individualizzata, cioè lo stile di vita individuale è lo stile di vita che cresce maggiormente in tutti i paesi occidentali.

    Questo fenomeno ci interessa e ha 2 chiavi di lettura: la prima è l’apoteosi e il successo della libertà individuale. Siamo riusciti a liberarci dai vincoli, dagli obblighi e abbiamo il massimo tasso di libertà: questo ci è stato promesso. Perché ad esempio, se una relazione non funziona, tu la molli, non hai l’obbligo (di continuare a stare in questa relazione). Milano presenta anche il tasso più alto d’Italia di separazione entro i 5 anni: entro i 5 anni dal matrimonio o unione il 35% delle coppie si separa. Questa è quindi una tendenza che si osserva.

    Noi abbiamo una società in cui vediamo l’apoteosi (ed uso proprio questo termine come lo usa il sociologo Bourdieu) dell’individuo. Si intende qui proprio l’apoteosi dell’io come promessa di felicità individuale: tu fai le cose che vuoi, stai quando ti sta bene, quando non ti sta bene, molli, stai con chi ti piace, se non ti piace lo cambi, sei il “super individuo”. Questa condizione corrisponde effettivamente a una vita con un alto tasso di libertà e di felicità per una quota di popolazione ma è una minoranza. Il prezzo non visto (di questa dinamica) è quello della solitudine, cioè la promessa della via individualizzata, individuale della felicità ha un costo sociale che è la solitudine.

    I neuroscienziati stanno cominciando a studiare la solitudine. Ci si sta cominciando a chiedere: perché noi umani soffriamo di solitudine? Qual è il motivo per cui si soffre in fondo?
    Si vede che la solitudine produce degli effetti sulla salute non solo psichica, ma anche sulla salute fisica. Tra le diverse cose che ho sentito, parto da questo (tema) perché oggi fare comunità, e questo lo si vede anche in molti progetti sociali, a volte è connettere individui isolati e disabituati alle relazioni. C’è una specie di analfabetismo relazionale in cui disimpari ad avere contatti. Alcuni studiosi associano la solitudine all’aumento del populismo, (la solitudine) è un serbatoio in cui covano sentimenti di cinismo, di disincanto, di rancore e alimenta anche dal punto di vista politico una forma di revanscismo verso gli altri. Quindi la solitudine è un fenomeno molto interessante per chi fa un’esperienza come la vostra.

    Mi ha molto colpito, nel racconto di come ci vedono gli altri, alcune frasi che ho sentito e qualcuno diceva: “C’è un compagno di classe di mio figlio che è venuto qui e che adesso vuol sempre venire, perché dice che qui sente qualche cosa che sente raramente”. Probabilmente, quando voi usate queste metafore come sapore, queste metafore anche fisiche, (intendete riportare che) le persone percepiscono una qualità relazionale che è rara, a cui oggi non è così facile accedere.  Questa qualità relazionale è rara e non è commercializzata: un altro elemento interessante della società della solitudine è il moltiplicarsi di ruoli di socializzazione dominati da logiche di mercato. I grandi centri commerciali sono degli enormi antidoti alla percezione di isolamento e le merci ti intrattengono. (Nella vostra esperienza) c’è qualcosa di proprio, di psicologia collettiva che secondo me è estremamente interessante. Questa è la prima cosa che mi viene da dire: c’è un’attualità della proposta relazionale. Occorre tener presente che, per uno che vive in una condizione di solitudine, affacciarsi ad un’esperienza come la vostra può essere come uno che non va più in montagna e gli proponi di andare al rifugio Margherita sul Rosa… Perché, se fa fatica a parlare col vicino di casa, stare in un contesto così è difficile. É come prendere il sole senza crema, ad agosto in spiaggia per tre ore ti scotti.
    Sicuramente, se la nascita dell’esperienza di Villapizzone negli anni 70 era in una società che aveva ancora forti elementi di relazionalità, di informalità, di capacità relazionali, oggi questo è un elemento (che non è più presente in questa forma).

    Il secondo punto riguarda tutta la discussione che avete fatti sulla governance e sui luoghi, perché stanno uscendo degli studi sulla domanda di autorità.

    In questi termini si possono leggere gli spostamenti a destra nelle elezioni di quasi tutto il mondo. Ci sono vari fattori che influenzano, ma c’è in termini di studi di psicologia collettiva, una domanda di autorità. Che cosa si intende per domanda di autorità? La domanda di autorità è mostrata dal momento che viviamo di leadership forti, autoritarie, dominanti, non solo quelle che noi vediamo nella politica pubblica.

    Non è così facile trovare delle organizzazioni che coltivano oggi (non negli anni 70, negli anni 80) questa via della governance di cui voi parlate. É come se ci fosse stato un po’ un disincanto; quindi, non solo il crollo della democrazia rappresentativa (lo sapete, ormai alle elezioni purtroppo ci sono pochi partecipanti), ma abbiamo anche in molte organizzazioni, anche in organizzazione di terzo settore, diciamo, un ritorno non di tipo dittatoriale ma a leadership, a governance piuttosto direttive in tantissimi ambienti. Vengono viste come (modalità di gestione) molto più efficienti.

    Trovo che questo tema della governance che è stato affrontato, anche tramite l’uso di espressioni curiose come “La governance senza governanti”, avvenga in un momento che non è esattamente quello della nascita dell’esperienza. Alcune persone, non solo non sono più abituate ad un intenso contatto relazionale, ma non sono neanche più abituati a muoversi in contesti ad alto tasso di democrazia. Faticano quindi a comprenderne il senso e non riescono a capire la grammatica: poche persone resisterebbero a ad un’intensità relazionale ed elaborativa come questa. Vi invito a mettere a fuoco questo tema perché quando ci si trova all’interno non è facile rendersi conto di questa cosa.

     L’altra cosa che mi ha colpito è la dimensione della speranza, della fiducia, del piacere, della bellezza. Per (approfondire questo aspetto vi propongo di) guardare alla fantascienza: è una spia dello spirito dei tempi. La fantascienza che va più di moda oggi è distopica. Piace molto quando è una fantascienza che mostra un mondo ormai devastato, dove devi sopravvivere. In genere c’è un eroe, qualcuno – negli ultimi, addirittura c’è un singolo che sopravvive con un animale, un cane oppure con un computer. É una fantascienza che ti dice: la società sarà così, uno col cane, per esempio. (in “Io sono leggenda” funziona così eh?) Oppure (con) l’intelligenza artificiale?
    É come se noi stessimo vivendo un’epoca di sfiducia verso le possibilità di noi umani di generare delle utopie possibili in contesti comunitari di piccolo gruppo. Ci sono, ma non è la narrazione dominante, non è il mainstream, …  e quindi anche qui (mi sembrano interessanti) le frasi che ho sentito dire: “Ma veramente voi fate questo? Ma è possibile, esiste un posto così?”. Questa cosa non è più nella narrativa, a meno che uno non entri in contatto con degli ambienti (particolari). C’è un sociologo che io amo molto, strano, è un coreano. Si chiama Byung-Chul Han, ha scritto un libretto che si intitola “La crisi della narrazione”, in cui dice che la narrazione è diventato lo storytelling del marketing. Il racconto di quanto le cose miglioreranno, quanto sarà bello il futuro è preso, è incorporato nella pubblicità: e quindi è diventato “marketing per venderti un’auto”.

    (Il messaggio sembra essere): non devi fidarti dell’umano, di noi umani, noi umani siamo fatti così… però ti puoi fidare di quest’auto, di questo (prodotto), di questa casa, di queste vacanze. Ho appena seguito la tesi di laurea di una ragazza che ha fatto l’analisi semantica delle pubblicità delle crociere, le pubblicità delle crociere è il mito dell’utopia possibile della felicità senza confini: tu li puoi far tutto. Quindi vieni con noi, MCS crociere (o MCF crociere?).

    Prevale un po’ il disincanto: te la devi sfangare da solo, o tu con la tua famigliola e se possibile o vai a vivere da qualche parte o fai la crociera, …  Anche questo, secondo me, ci dice molto e quindi di come una proposta come la vostra sia una proposta invece di un’alternativa possibile, accessibile, che non è regolata da una logica di marketing.

    L’ultima cosa invece che mi ha colpito riguarda sempre la governance. Qui ho sentito tante cose che si sentono anche da anni. Qualcuno diceva “però i nostri comunitari non vengono alle riunioni, …” Ora riguardo a questo, io fossi in voi, mi rilasserei. Perché mi rilasserei?

    Secondo la tendenza attuale noi abbiamo circa 6.5 milioni di persone in Italia che sono cittadini attivi: fanno volontariato, fanno l’allenatore gratis, producono beni pubblici senza una retribuzione, fanno il rappresentante di classe, … Questo (è il numero che risulta) secondo i dati Istat: è calato durante il Covid e poi è ritornato uguale. Questo dato, circa il 12% della popolazione, è più o meno lo stesso in tutta Europa. Noi abbiamo una particolare conformazione, abbiamo meno grandi organizzazioni, abbiamo più realtà piccole. Dentro le organizzazioni si ripropone uno schema non molto diverso: fatte 1000 le persone noi stimiamo che sono circa 100 / 150 quelle che si curano dei processi organizzativi. La maggioranza delle persone è concentrata su di sé, sull’individuo. Questo è il mainstream: pensa a te, alla tua salute, al tuo benessere (il wellness, il fitness, l’industria del fitness).
    IO, questo è il mantra del nostro secolo. Voi avete persone, famigliè: è già tanta roba. Nella famiglia mi devo occupare non solo di me stesso come individuo ma della mia famiglia. Qui una marea di persone “ha già fatto sera”. (In MCF) voi avete il gruppo di condivisione o la comunità di famiglie? Quindi devo pensare a me. Ho pensato alla mia famiglia, in più ho fatto comunità di famiglia. E poi c’è l’associazione, l’Associazione di Comunità di famiglie.

    Anche riguardo a questo sono interessanti i dati dell’Istat che io guardo e studio per lavoro. In Italia oggi si stima che in Italia un volontario su quattro, il 25% di questi, non vuol far parte di nessuna organizzazione. L‘individualizzazione è arrivata all’impegno sociale. La maggioranza dei miei studenti sono fatti così: faccio un anno con Emergency, poi torno, farò adesso (un’altra esperienza) per un anno, ho la ragazza, interrompo, però sono interessato, vado sei mesi,…  Uno adesso è andato sei mesi in Romania a fare un’esperienza di volontariato e poi ritorna…
    Però non fanno parte delle organizzazioni (con cui collaborano). Apportano il loro tempo per vivere un’esperienza dentro un’organizzazione. Ma se gli dici “riunioni, assemblee, bilanci, statuti”, gli viene l’orticaria. Questo è un elemento è comprensibile ma critico, ovviamente.

    Concludo dicendo che quindi se è vero che l’associazione – è una frase che ho sentito qui – l’associazione è uno strumento per far le cose, far fare in modo che appunto succedono le cose, sappiamo che qualcuno se ne deve occupare.

    Però tenete conto che, secondo gli studi del Centro studi nazionale del volontariato italiano, tutte le organizzazioni di volontariato italiano hanno un problema di crisi di vocazione di ruoli gestionali. Nessuno vuol più fare il Presidente, l’Assemblea, il Consiglio di gestione –  “Voglio andare a fare italiano per stranieri due sere alla settimana, voglio andare a far a fare attività con i bambini, però non fatemi fare le riunioni”.
    Dentro questa cornice (si verifica) la crisi di questi ruoli di servizio che non sono direttamente e tangibilmente collegati con la mission: “Io sono qua per fare comunità con le famiglie, mangiare insieme, avere minori in accoglienza ma non fatemi pensare”. Non dico che (questo) sia giusto o sbagliato, anzi non è possibile non occuparsi dell’organizzazione. In una conversazione ascoltata ieri mi è venuto in mente che qui occuparsi dell’organizzazione non è solo una mera funzione, diciamo logistica, economica, organizzativa che è molto importante.

    Mi è venuto in mente proprio un autore molto noto nella psicologia degli anni 70, si chiama Jerome Bruner, che ha teorizzato un concetto che è quello, in inglese, di scaffolding. Scaffolding sarebbe l’impalcatura: per mettere a posto questa casa dall’esterno, se devo rifare le facciate, costruisco un’impalcatura… Le organizzazioni sono degli scaffolding, cioè, servono, non sono un obiettivo in sé. Non è che io costruisco l’impalcatura perché l’impalcatura è l’obiettivo, ma attraverso l’impalcatura io accedo, cammino, mi proteggo, salgo su, mi copro, mi lego e faccio la facciata della casa. Riguardo a queste funzioni, qualcuno ha un’attitudine a fare questo, gli viene; per qualcun altro è molto faticoso, ma soprattutto non ha il rapporto diretto con il senso ultimo (stare coi bambini, fare comunità, fare le tisane, …). É abbastanza probabile che anche il vostro interno (ci sia questo problema), ma per le percentuali che ho calcolato velocemente siete sopra del doppio della media delle organizzazioni perché c’è un’educazione reciproca ad occuparsi (dell’associazione). Però ritengo ci sia un limite fisiologico di cui tener conto.

    Da ultimo c’è un’altra cosa che è il rapporto con il denaro. Nel corso di questo incontro abbiamo visto i numeri. Ora all’origine della psicanalisi, scusate per questa divagazione, il tabù principale per sondare la psiche umana, l’elemento centrale per Freud era la sessualità, Il sesso. Secondo la psicanalisi più recente, l’elemento centrale per capire la psiche umana è il rapporto col denaro. Il denaro è un sostituto simbolico del valore (Marx lo diceva) ed è un tabù collettivo. Cosa avviene quindi: che è difficile parlare di soldi esplicitamente, fuori da una logica capitalista, cioè di “tu ne hai di più, tu ne hai di meno”. A me ha molto colpito, durante l’anno in cui sono stato negli Stati Uniti, che quando conoscevo le persone la prima cosa che mi chiedevano fosse: “ma tu quanto guadagni?”. Non “tu, cosa fai? Ma “tu quanto guadagni?”. Io lavoravo in un progetto con dei ragazzi di strada a Washington (ci sono i ragazzi di strada anche a Washington), e questi dicono, “Tu che budget hai gestito?” – In che senso? – “Si, i tuoi progetti. Quanto denaro hai maneggiato?”. Il volume di denaro che tu maneggi nella cultura contemporanea è un’attribuzione di potere, di status e di competenza. Ci si raccontava di quando durante un incontro con un possibile donatore a cui tu cerchi di spiegare, di raccontare (cosa fa MCF), poi dopo gli si dice “noi ospitiamo 300 persone”. Questo numero, in questa logica diventa sostituto simbolico del valore e dà una percezione di potere, non di autorità ma di potenza, possibilità, che viene decodificato velocemente in certi ambienti culturali. É quindi interessante riuscire a parlare di queste cose al proprio interno, trovando un proprio linguaggio per raccontarlo all’esterno, ma sintonizzarsi con lo spirito di tempo.

    (Mi sembra quindi che) c’è un’alternativa che continua a essere possibile, ma che occorra raccogliere dati (voi lo state facendo anche con questo lavoro che sarà faticoso) perché questo consente di raccontarsi all’esterno in modo in cui venga percepito ancora di più il valore di quello di quello che state facendo.