Chiacchierata di Bruno ed Enrica con Valter, Chiara, Katia
Berzano, aprile 2016
Valter Bruno, oggi sei provocato da tua nuora Chiara, da tua moglie e dalla mia, perché ci sono delle sensibilità, delle situazioni che loro (in quanto donne) stanno vivendo, sullo stato dell’arte di Mcf.
Bruno: C’è un bel vento in giro qua, che cosa vuoi che pensi? Mi piace rileggere la mia storia, cercando di essere un po’ critico, con me stesso, quello che ho vissuto, che ho fatto, quello che ho detto e come l’ho trasmesso. Una rilettura critica, vuol dire cosa avrebbe potuto essere, che non è stato, quelle cose per cui ci siamo illusi.
Io voglio cercare di capire, perché ho fatto così, perché mi sono comportato in quel modo lì; perché ho raccontato agli altri cose che magari non sono state capite (perché anch’io mi sono espresso male).
Ho letto recentemente la storia dei frati di Tibhirine… grandiosa: si confrontavano sulla morte quasi certa, hanno vissuto tre anni sapendo che sarebbe finita così, però vivevano comunque e si sono interrogati molto, hanno discusso molto tra di loro, nel cercare il senso. Si chiedevano: “Perché ha senso stare qui?”.
Cose che mi sono detto anche io: perché rileggere la mia storia? Forse lo faccio perché ho 79 anni…
Chiara Perché hai usato il condizionale? “Cosa avrebbe potuto essere” hai detto, e questo mi dà la sensazione che hai la percezione di un allontanamento rispetto alle intuizioni iniziali.
Bruno Non è esattamente così: quando mi dicono “i tempi sono cambiati, i giovani sono cambiati” sarà vero, ma quando li incontro, le domande sono sempre le stesse: mi rivedevo io alla loro età: dare senso alla vita, come fare a dare senso alla vita?
Può essere cambiato come esprimere la ricerca, per esempio, io ho sempre avuto dubbi sulla parola comunità. Sono sicuro che non abbiamo cominciato così, ognuno poi la raccontava come voleva, è chiaro, ma è stata anche una fortuna avere un’associazione dove ognuno racconta la sua storia di comunità, a modo suo. Però, io, come la raccontavo? Non è che ho illuso la gente? Io ho sempre detto anche nell’intervista pubblicata in Un’alternativa possibile che non era facile, ma era un cammino felice. Però la gente mi capiva? Il sogno della comunità mi sembra facile, l’ho sempre detto, che la vita è talmente magra fuori che ognuno sogna la comunità. Ma quale comunità? Neanche i frati vivono quella comunità idealizzata; molta gente che ancora oggi passa di qui o a Bose o a Taizé, poi sogna, ma non è nemmeno quella. È nella tua testa che l’hai realizzata quella roba lì.
La mia quindi è una autodifesa. Perché io la cosa la raccontavo ma ho l’impressione che la gente ha capito un’altra cosa. Io non posso garantirti che la lettura che fai tu della comunità sia possibile per tutta la vita, magari è possibile per un periodo. C’è stato qualcuno nel nostro interno che ha lasciato, ed è tornato a fare “la vita normale”. Perché hanno lasciato? Non hanno trovato quello che cercavano.
Qual è la comunità possibile? Io non la chiamerei più comunità, il Papa l’ha chiamata “prossimità familiare”. Mi sembra già più adeguato: noi abbiamo fatto una prossimità familiare. A Villapizzone c’era una prossimità familiare, uno stare accanto. Quando abbiamo cominciato, noi 2 e i 5 gesuiti, e poi i Nicolai, nessuno di noi parlava di comunità. Abbiamo cominciato a parlare di comunità anni dopo, quando padre Gaetano ha scritto una ‘lettera di vita comunitaria’. E se si legge quella lettera di vita comunitaria, si è molto vicino a quello che dico io. La famiglia è in sé una comunità, insieme siamo comunità di comunità. Ma tra famiglie? In contesti come i nostri? È possibile? È possibile la vita di comunità? E come?
Come sento che viene intesa non è possibile: crea problemi a non finire, perché si parla di decisioni collegiali, o almeno condivise, ma cosa vuoi condividere?! Se nemmeno io e mia moglie riusciamo a condividere… abbiamo due idee diverse su tutto!? Figurati con gli altri.
Allora andiamo adagio, io ricordo che ho sempre detto “beata quella comunità che non deve decidere niente”, perché io non devo decidere niente in nome della comunità, perché altrimenti delego alla comunità le mie cose. E poi io faccio o non faccio perché la comunità mi ha detto… No, cosa vuoi fare solo perché lo dice la comunità? La comunità è una parola astratta, noi siamo persone.
Enrica Quando ci siamo messi a Villapizzone, cosa vuoi che ne sapessimo noi di che cosa eravamo lì a fare? Se doveva essere una comunità o che cosa? Noi avevamo bisogno di quella vita lì per andare avanti, e vivevamo giorno per giorno come ci sembrava giusto, ci sembrava bello.
Bruno È stato Radice Fossati (allora proprietario dell’immobile) a volere che noi mettessimo giù qualche cosa di scritto. Perché lui diceva” non voglio dare Villapizzone a Bruno Volpi“, e nemmeno io lo volevo. Allora ci siamo guardati in faccia e l’abbiamo chiamata “la comunità di Villapizzone”. Ma senza neanche riflettere molto.
Enrica E poi venivano fuori di volta in volta dei ragionamenti.
Ricordo bene che all’inizio si diceva che era come un parcheggio: che chi voleva poteva venire, unirsi a noi e stare lì il tempo che aveva bisogno e poi continuare altrove.
Bruno Io la raccontavo così agli scout e ai gruppi che venivano a conoscere la realtà: “Qui c’è un mosaico, fra gesuiti e famiglie, c’è chi sta bene, c’è chi sta male, c’è chi ha capito qualche cosa, c’è chi sta capendo qualche cosa. Questo è il mosaico, ed è un mosaico incompleto: manca il tuo tassello, mancano i tasselli di chi verrà dopo; però sei tu che sai di che colore è il tuo tassello, e dove va posato. Ognuno responsabile di sé.”
Chiara Volevo dire che il paragone del parcheggio, dice anche dell’essere parcheggiatore, per anticipare la vita di comunità. La differenza è che mi sembra che adesso manchi una reale comprensione del percorso, cioè è come se chi arriva debba avere ben chiaro da subito se è parcheggiatore o parcheggiato, ci si aspetta già così tanto. Piuttosto che pensare a un percorso nel tempo, che possa essere un percorso possibile. C’è il percorso, la possibilità che uno ha di venire a fare un’esperienza, all’interno della comunità, e chiarire in itinere se può diventare una scelta oppure andarsene. Quello che raccontate voi è di aver cercato nel corso degli anni di dare la possibilità a tutti coloro che volevano sperimentarsi in questa esperienza, di fare un periodo che fosse lungo o che fosse breve, all’interno di questa realtà di vita comunitaria… e poi lasciare a ciascuno la possibilità di capire….
Bruno Allora che cosa abbiamo fatto? Per introdurre i nuovi o chi si avvicinava… abbiamo inventato i gruppi di condivisione.
I gruppi di condivisione nascono dopo che eravamo già a Castellazzo, nascono perché c’era talmente tanta gente… Mi ricordo che qua a Villapizzone, prima che nascesse il Castellazzo, facevamo un gruppo di condivisione aperto con le famiglie della comunità, ed è lì che abbiamo cominciato a dire che c’era un percorso da fare per capire se quello che cerchi tu e quello che offre la comunità può andare d’accordo. Ciascuno deve capire cosa vuole e cosa cerca. Quello che cerchi tu è quella casa là con il suo carisma? È fare quelle cose lì?
Io penso che se dovessi rifare la storia sarebbe da fare in un modo semplicissimo. Alle persone che sono “parcheggiate”, perché la casa non c’è ancora, direi: “Iniziate a camminare tra voi. Fate degli incontri, per raccontarvi chi siete, cosa sognate… Sognate? Devi raccontare questo di te agli altri! In modo che ti rivedi un po’ alla volta senza essere in comunità, ma intanto cammini.” L’abbiamo detto tante volte, credo che la condivisione sia un racconto di sé, e un ascolto del racconto dell’altro. Non teorie, ma quello che si sta vivendo. Non dobbiamo metterci d’accordo, dobbiamo capire che cosa vogliamo. Ognuno di sé. Punto.
Mettersi d’accordo era tutta pura fantasia, c’erano dei gruppi dove si discuteva addirittura qual era il metodo educativo dei figli. Se volete discutere benissimo, se invece volete litigare tra voi, discutete sull’educazione dei figli.
Dopo tanti anni di comunità ho visto che era una cosa impossibile, non solo sull’educazione dei figli, ma anche sulla fede o altro…
Non è il discutere che aiuta. Vogliamo parlare di figli? Va bene, allora parliamo dei figli: allora com’è il tuo vissuto? Quello dei tuoi figli? E così è un guardarsi dentro, è un continuo chiedersi ma io che cosa voglio? A che punto sono? Che cosa vogliono gli altri? Fare un discernimento su quello. Io dopo tanti anni che sono sposato e viviamo in comunità, che ho cercato di essere coerente con me stesso, ancora oggi mi domando che cosa voglio oggi.
Valter: Che cosa è la libertà, allora?
Bruno: A me sembra che Silvano non volesse che si parlasse della libertà perché ci si confonde le idee; la libertà non è libero arbitrio perché, se la libertà non è mitigata dalla responsabilità e dalla fraternità, non è libertà; ci vuole discernimento. La libertà senza discernimento diventa libero arbitrio.
Katia All’inizio hai detto che invece di “comunità” sarebbe più indicato chiamarlo “prossimità”. Però non capisco che cosa c’entri la cassa comune. Nella comunità ci sta, ma nella prossimità…
Bruno Prossimità è sinonimo di comunità. Ho l’impressione che la parola comunità sia svilita, utilizzata da tutti, parlano tutti di comunità. Che cosa vuol dire comunità? Perché si parla di comunità e cassa comune? La cassa comune è un passo oltre, e non è quella cosa così complicata come si pensa. Però ci vuole tempo per capirla perché la cassa comune deve essere uno strumento, non un fine.
Mi serve per imparare la fiducia. Perché chi è che si fida veramente? La cassa comune è “io mi metto nelle tue mani”! Ma non soltanto per il tempo che staremo insieme, per tutta la vita; io sono nelle mani delle comunità… La fiducia non è “vivere” la fiducia; perché se tu dici di vivere la fiducia presupponi di avercela. Il verbo giusto è “coltivare!” Bisogna costruirla, innaffiarla, tutte le mattine, perché io mi metto nelle tue mani e poi magari te ne vai; non mi sono messo nelle mani di Tizio, Caio e Sempronio, mi sono messo nelle mani di quella storia lì. La cassa comune è imparare! È per la durezza del mio cuore, perché io sono nato in una cultura che dice sempre: stai attento! È un salto enorme. Allora dobbiamo saperlo, che questa cassa comune tra tre, quattro, cinque famiglie, è un cammino per capire la fiducia.
Io ho sempre detto che la fede in Dio è mistero, ma la fiducia nei miei amici… Questo modo di stare insieme mi aiuta a essere fiducioso, a essere aperto, se no non ha senso, è tempo perso, punto! Sono soldi buttati altrimenti.
Quindi, ripensando un po’ al tutto, anche ai gruppi di condivisione, qual è la possibilità, la comunità possibile?
Che ruolo ha Mondo di Comunità e Famiglia? Mentre tra noi parliamo di questa comunità “sbiadita” (che chiamiamo prossimità familiare), chi indica il cammino se non l’Associazione? Carlo Maria Martini ce lo diceva, “la vostra associazione, se non fa questo, che cosa fa? Mica tutti possono andare in Africa per formarsi… La vostra Associazione, se non indica il cammino, se non dà strumenti… che cosa fa?”
Anche il Consiglio è ‘in-formazione’, non è lì per dare consigli e dire cosa bisogna fare. È lì per capire bene che cos’è quella fiamma, che dovrebbe esserci all’interno e a cui tutti aspiriamo, non perché siamo bravi, ma perché ne abbiamo bisogno. Per vivere! Per quella porta aperta. Bisogna dirle queste cose!
Anche vivere con la porta aperta, è un’altra cosa enorme! Perché quando c’è un corpo estraneo nel tuo corpo, c’è un rigetto. Però ci vuole, perché è solo così che imparo a stare insieme in un modo prossimo; l’ospite rende possibile la comunità. Lavorando su di me, in casa mia, perché ho uno (l’ospite) che mi rompe tutto il giorno, a maggior ragione cercherò di andare d’accordo con uno (il compagno di comunità) che non è così estraneo e nello stesso tempo non è in casa mia.
Il mio problema adesso è: “Ma tu Bruno, hai proposto una cosa possibile?” E mi rispondo anche! “Sì perché ho cercato di essere coerente con quello che predicavo. Con quello che ho vissuto…”
Un altro caso di fraintendimento riguarda il lavoro. Quando io dicevo che per vivere basta lavorare mezza giornata, che cosa è successo? Le mogli si sono licenziate e alcuni mariti si sono messi in part-time. Ma se poi andiamo in comunità e facciamo tutto esattamente come prima, non funziona. Io dicevo che per vivere è sufficiente lavorare mezza giornata, perché a questo bisogna mettere accanto l’altra mezza giornata che impiego in casa mia, nella mia famiglia grande, ma anche nella mia comunità. Allora diventa possibile la cosa.
E poi, aggiungevo un’altra cosa, perché quando dico che bisogna lavorare a metà tempo, la gente fa un balzo sulla sedia e dice “oh che bello”; ma io aggiungo sempre che non vedo come potremmo produrre di più. Se io ho messo al mondo quattro figli, se fossimo stati fuori, io e lei cosa avremmo dovuto fare!? Andare a lavorare tutto il giorno! Io in un modo e lei in un altro e poi venire a casa a badare i figli, a fare da mangiare… Che vita è quella??!
L’alternativa c’è (siamo ambiziosi), io voglio lavorare mezza giornata per produrre soldi e anche essere presente alla mia famiglia (perché ha bisogno del papà), ma voglio essere presente anche in comunità… perché altrimenti che cosa son lì a fare? E se non smetto di consumare al ritmo che consumano gli altri come posso fare? Gli altri che consumano-producono-consumano hanno diritto di andare al mare anche un mese… e qualche volta in montagna d’inverno, perché è una vita disgraziata, quella lì… se no scoppiano. Ma noi? Abbiamo bisogno di tutta quella roba lì? No, perché allora siamo dei dritti, abbiamo trovato l’America.
Ecco, io metto sul mio fardello, sulle mie colpe, di non essere stato chiaro abbastanza, di avere illuso della gente.
Chiara Io ho un po’ la percezione che ci sia uno sguardo che senz’altro deve essere attento ai tempi che sono cambiati, alle persone che hanno storie diverse, al fatto che le persone che si affacciano all’esperienza di vita comunitaria sono diverse, e questo è sicuramente un lato nuovo che va capito e compreso; però bisogna tenere anche salda la storia, e gli inizi, non modificarli a seconda delle nuove richieste, o no?
Bruno La richiesta di fondo è ancora la felicità. Sapere di avere della gente con la quale posso camminare. L’accoglienza: Isaia ne parlava tremila anni fa. Non è cambiato niente di essenziale.
Mi ricordo, che Silvano a Villapizzone, quando io ed Enrica andavamo via per iniziare Castellazzo (la nuova comunità, la prima dopo Villa), mi disse “lo zaino deve essere piccolo, l’importante è portar via l’essenziale, il nocciolo”. Ecco, adesso, finalmente dopo tanti anni, mi sembra di vedere che si sta lavorando a capire di più il nocciolo. E però ce n’è voluta di strada. E all’ultimo arrivato dico “vuoi fare un cammino? Fallo”. In libertà.
Libertà vuol dire responsabilità! Responsabilità di quello che fai. Il buon Filippo (Clerici) parlava di “zoccolo duro”. Ci vuole uno zoccolo duro di quelli che credono in questa storia, e la sperimentano. Senza se e senza ma. Martini diceva: “Date l’occasione a molti di fare un’esperienza, però senza illudersi di doverli convertire”. Noi abbiamo in corpo un fuoco, abbiamo in corpo qualcosa, ma anche loro hanno in corpo qualche cosa, raccontiamocelo e vediamo un po’. Parliamo di quello che cerchiamo. Come quel monaco di Tibhirine che aveva incontrato un musulmano, con cui spesso si trovava a pregare: lui pregava nel modo in cui pregano i cattolici, l’altro pregava come i musulmani; un giorno gli dice “ascolta, noi stiamo scavando un pozzo, io il mio e tu il tuo, ma noi giù nel fondo, cosa troviamo? L’acqua musulmana o l’acqua cristiana?”. Quello lo guarda un po’ e gli risponde, “mah… l’acqua di Dio!”
Quando si dice “io ti racconto di me”, non racconto come dovrebbe essere la comunità: non mi interessa. Io ti racconto lo scavo dentro di me. Io ho capito quella roba lì, che non riesco, non sono capace di voler bene al mio vicino di casa… Insomma ognuno dice il suo scavo, e scava e scava si riesce a trovare l’acqua di Dio. È molto bello quel racconto. Perché quella era una comunità che si interrogava: “noi cosa siamo qui a fare?” e sapevano che volevano essere coerenti e quindi sarebbero stati ammazzati… Liberi di tornare a casa loro se volevano, ma più andavano avanti, più si univano…
Enrica Il pozzo bisogna essere in due a scavarlo. Uno che scava, l’altro che tira su: anche diversi, ma insieme. Diversamente vedo il rischio che poi ci sia quasi una frattura.
Chiara Torno alla cassa comune, non è solo condivisione di beni. È condivisione di tutto, della propria vita. Io metto tutto quello che sono e prendo quello di cui ho bisogno. I soldi sono solo una delle tantissime cose che ‘prendo’. La cassa comune non mi serve solo per comprare il pane.
E allora faccio un po’ fatica a capire il senso, rispetto a quello che dicevamo all’inizio, se ciascuno di noi è in un percorso, se siamo stati attratti da qualche cosa, e scegliamo di fare ‘questa’ esperienza, è il senso di appartenenza a un’esperienza che ci unisce in qualche modo, no? E quindi penso che siamo tutti sulla stessa barca, altrimenti l’essere un po’ fuori un po’ dentro, qualcuno sulla barca e qualcuno no…
Mi sembra che chi si avvicina sia attratto dall’esperienza e dal luogo e dalla gente accogliente, però se non c’è una comprensione del bisogno individuale di cui si parlava all’inizio, l’ascolto di che cosa vado a fare in quel posto, se non ce l’ho chiaro, finisce che ho degli atteggiamenti di pretesa, che è il posto che deve adattarsi a me, e non sono io che scegliendo, in qualche modo capisco come posso starci dentro. Non è la comunità che risolve i miei guai, ma al massimo sarà un posto e una compagnia in cui io potrò vedere di crescere. Se non ce l’ho chiaro quando arrivo, credo che vedrò più facilmente le cose che non vanno, il casino che c’è nelle dinamiche quotidiane, che sono faticose, ma sono anche la nostra bellezza, perché per riconoscere di essere diversi e vivere quotidianamente nella diversità, sappiamo che è un casino, però lo consideriamo un valore. Allora dico che mi sembra molto importante lavorare sul senso di appartenenza a un posto.
Bruno Certamente, ma non lo puoi pretendere.
Però, chi può aiutare quelle famiglie a sentirsi parte, quando non hanno ancora chiaro perché sono lì, e quindi faticano anche a dirlo? Chi è che deve fare questo servizio? Non chi abita insieme, che altrimenti si entra subito in conflitto, ma l’associazione. Comunità e Famiglia è nata per aiutare la gente a fare quei passi lì. L’associazione deve avere ben chiaro qual è il messaggio che propone, il carisma di Comunità e Famiglia. Che non è fare un bel convento, dove tutti vanno d’accordo.
Valter Mi sembra che la sfida che è in corso adesso per Mondo di Comunità e famiglia è ravvivare la fiamma e averne maggiore coscienza e consapevolezza. Ma questo non sarà un servizio che qualcuno può fare per qualcun altro, e non è un servizio che i vecchi possono fare ai nuovi arrivati. La sfida è provarci dando la parola a tutti, compreso l’ultimo arrivato; e compreso il vecchio, naturalmente, che avrà delle cose diverse da dire, ma la sfida è che il figlio nascerà dall’incontro, dal parlarsi tra queste diversità. Un cammino da inventare insieme. Perché se no l’alternativa è la regola: tu sei dentro o tu sei fuori. Se rinunci alla regola ti affidi alla vita, al movimento (inteso come il fatto che si è in cammino insieme, ci si influenza e ci si aiuta… si apre strada facendola). Il nuovo che si genera sarà diverso, però la sfida è proprio questa: c’è gente che ha voglia di rischiare l’insicurezza. Il fidarsi, anche del sogno di uno che non ha ancora capito che deve partecipare con i suoi sogni… e va bene, lo capirà strada facendo.
Bruno Questo è molto evidente dal fatto che abbiamo comunità con degli spazi vuoti, ma non c’è tra la gente nei gruppi di condivisione chi se la sente di andare. Piuttosto sono candidati a una nuova casa. C’è quasi una paura di andare a confrontarti con una storia. Il vecchio va cercato… Se io ho voglia di capire, vado da un vecchio eremita e quello mi spiega qualche cosa. Io posso parlare a tu per tu con chi ha voglia di parlare con me.
Io vado dove mi chiamano; vado a cercare di spiegare qual è la fiamma che ha tenuto insieme la baracca, che va coltivata.
Abbiamo iniziato a parlare anche di ‘accompagnamento’ e per me dovrebbe essere qualcosa di molto leggero: accompagnamento vuol dire che si ascolta qualcuno, e se si scopre che ha un’idea un po’ sbagliata su cassa comune, accoglienza ecc, lo si può aiutare a capire le cose, anche prendendo in mano un pezzo di carta dove ci sono scritte queste cose, che vuol dire che non dico il mio pensiero, ma il pensiero di Comunità e Famiglia. Se uno non sa cosa è la cassa comune, si va ad aiutare a capire che cosa è la cassa comune. Non a dire che cosa fare; poi sarà lui a decidere, non vado io a dire cosa deve fare. Poi se uno sta sbagliando, io gliel’ho detto, forse questa non è la sua strada. Poi farai la tua strada, però io, guardandoti, perché io ti voglio bene come un figlio, ti dico quelle cose: forse stai sbagliando strada.
Valter In questo momento c’è anche Sichem. Un percorso per allargare la coscientizzazione, per trasmettere quella fiamma, sperando che poi scaldandosi alla fiamma aiuti.
La creazione di una serie di opportunità per pensare, e per nominare che cos’è questo nocciolo, che cos’è questa fiamma? Adesso è una serie di “cantieri” a cui si può partecipare, su cui ci si confronta, si ascolta, si pensa insieme. Le occasioni sono tante, anche distribuite nel territorio, in modo che ognuno possa trovare un po’ il tema a cui si sente più vicino e anche il luogo; sempre cercando di tirar fuori il nocciolo dell’esperienza, il cuore. Dire del cammino, capire perché lo stai facendo, e riuscire a capire che c’è un fondamento che sta più sotto. Per chi fa questo percorso, è già formazione: è’ stata chiamata auto-formazione o “formazione camminante”. Perché è un riflettere non di teoria o di storie di altri, ma sul cammino che ognuno sta facendo. Formazione camminante, perché non c’è una formazione da acquisire una volta per tutte, ma un cammino da fare. C’è un gruppo di persone che ci sta lavorando sopra, per capire qual è il nocciolo, capire quella fiamma, e cosa si può fare per aiutare tutti. La scommessa è ‘non so dove andrò, ma so che ci voglio andare con gli altri’, e quindi mi fido anche dei rischi di parlare con uno che non ha capito; l’idea è di mettere insieme quello che c’è, e probabilmente la somma sarà maggiore del contenuto dei singoli. E si cerca così la strada nuova da percorrere… È un’alternativa alla regola, o al capo che dice qual è la verità, e anche al ‘va tutto bene’.
Bruno Volevo aggiungere una cosa, relativamente al ruolo del presidente di comunità. Io ho l’impressione che ci siano presidenti che fanno solo i contabili, tant’è vero che in certe comunità c’è il presidente e poi c’è il tesoriere, che fa i conti. A cosa serve il presidente? C’è un gruppo di persone che delega un ruolo, e per me il presidente è una persona al quale la comunità dà fiducia. Si tratta di fare il buon padre di famiglia che vede le cose che non vanno, ma non perché deve comandare. Io ti do fiducia, autorità; votandoti ti chiedo di guardarmi: se vede che uno fa la cassa comune come vuole lui, va e spiega, con carte alla mano, che quello che ha detto lui è qui, è scritto. La cassa comune, non vuoi farla? Bene, paghi un affitto e sei un accolto. E non glielo dici, ma è come è un accolto. Oppure uno dice, io costo alla comunità tot e mette dentro tot +10; e lui si sente a posto con la coscienza. Anche brava gente con cui ho discusso, su questo, porca miseria! Noo. Dal tuo punto di vista hai ragione, ma la cassa comune è un’altra cosa ed è quella cosa lì che abbiamo scritto.
Bisognerà farlo capire, io ti do fiducia, autorevolezza, votandoti come presidente, ti chiedo di guardarmi. A me sembra che questo sia fondamentale….
Valter Vista l’ora, ne riparleremo approfonditamente. In effetti si capisce che ci sono ancora delle cose da inventare, strumenti adeguati ai tempi, coerenti…”